Articolo 21 - Editoriali
INFORMAZIONE E AFRICA - Al Jazeera in Africa
di Enzo Nucci
«C'è la certezza che in Africa molti milioni di persone sprofonderanno sempre più nella miseria: se non si interviene con un forte piano di emergenza ci sono forti rischi di guerre civili, se non di guerre estese».
É l'allarme lanciato lo scorso 10 marzo da Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, al summit che ha radunato a Dar es Salaam (Tanzania) i ministri delle finanze dei 53 paesi che compongono il continente africano.
Strauss- Kahn, che non è certo un pericoloso rivoluzionario, ha aggiunto che «se la comunità internazionale ha trovato centinaia di miliardi di dollari per affrontare la crisi globale, non è ammissibile che non possa trovare qualche centinaio di milioni (meno di quanto ha investito per salvare singole aziende private) per i paesi più poveri».
La crisi nata a Manhattan sta lentamente raggiungendo le coste africane e l'impatto sarà durissimo. Le cause vanno ricercate nella contrazione degli aiuti concessi dai paesi sviluppati, nella riduzione delle rimesse in valuta degli emigrati, nel calo nella vendita delle materie prime che spesso costituiscono la principale voce dell'export degli stati africani. Strauss-Kahn (ex ministro francese delle Finanze) prevede per l' Africa un fin troppo ottimistico 3% in crescita per quest'anno di fronte al 5,8% del 2008.
In base ad un recente rapporto della Banca Mondiale, la crisi potrebbe tradursi per le economie africane in un costo che va da un minimo di 215 ad un massimo di 556 miliardi di euro. Ma al di là delle aride cifre il rischio vero è che questa ondata di povertà inneschi violenze e conflitti.
Eppure «l'Africa offre il miglior rendimento di capitale investito del mondo» secondo il ricco uomo d'affari sudanese Mo Ibrahim, uno dei pionieri della telefonia mobile del continente e fondatore di un premio per il buon governo.
Insomma un invito a sfruttare la crisi per favorire gli investimenti privati in un continente che offre ancora prospettive di crescita economica.
Ma tutto questo di cui abbiamo parlato fino ad ora ha trovato adeguata eco sui mezzi di comunicazione di massa italiani e stranieri? Oppure, come al solito, la notizia è stata relegata in qualche stringata riga del "pastone" economico proveniente magari da Bruxelles, sede delle istituzioni finanziarie europee?
Domanda volutamente retorica. Una premessa che serve invece ad introdurci al tema di questo intervento. Che impatto ha in Africa la presenza di Al Jazeera?
Prima del 15 novembre 2006 (quando il canale televisivo satellitare iniziò a trasmettere in lingua inglese anche qui), c'era stato solo un coraggioso ma fallimentare tentativo di lanciare Africa Tv.
L'ambizioso progetto (che nasceva sulle ceneri di analoghi tentativi) prevedeva la presenza di piccole troupes televisive in ognuna delle 53 capitali del continente, con trasmissioni in inglese e francese nella fase di avvio ma con l'obiettivo di offrire anche reportage nelle diverse lingue locali. Anima e motore dell'iniziativa era Salim Amin, figlio di Mohamed Amin, kenyano, uno dei più grandi cameramen e fotogiornalisti del mondo, testimone di quasi 40 turbolenti anni di storia africana, celebrato anche da Ryszard Kapuscinski ne Il Negus, morto in un incidente aereo nel ‘96.
«Desidero dare un punto di vista più equilibrato sull'Africa - spiegava Salim Amin - grazie agli africani piuttosto che attraverso corrispondenti stranieri. I grandi network che coprono con notizie 24 ore su 24 non hanno risorse per raccontare le tante storie che restano in disparte e di cui c'è bisogno per comprendere l'Africa».
Nelle intenzioni dei promotori non si sarebbe dunque parlato solo di fame, guerra e Aids ma l'obiettivo era di proporre storie di successo, infondendo ottimismo attraverso personaggi di moda, sport e intrattenimento. L'idea programmatica era anche di riuscire ad esercitare pressioni sui governi su alcuni temi sociali, politici ed economici importanti.
Purtroppo tanta buona volontà non è stata premiata dagli investitori e l'inizio delle trasmissioni - fissato per il 6 marzo del 2007 - è stato cancellato.
Salim Amin ha intanto creato un'agenzia di informazione che distribuisce filmati sull'Africa.
Al Jazeera International ha avuto il grande merito di illuminare costantemente l'Africa con una informazione a tutto campo proprio nel momento in cui i media occidentali dimostrano un grande disinteresse per questa parte di mondo.
Uffici centrali a Nairobi (Kenya) e Johannesburgh (Sud Africa) ed una rete di corrispondenti distribuiti sul territorio rendono possibile di seguire in tempo reale le vicende africane. Nelle intenzioni anche due redazioni ad Abidjan (Costa d'Avorio) ed Harare, unico network internazionale che ha ottenuto l'autorizzazione di aprire una sede in Zimbabwe.
Uno spiegamento di forze tale da consentire (all'inizio dell'avventura africana nel 2006) a Nigel Parsons, direttore generale dell'emittente, di affermare: «Avremo più uffici e più mezzi riservati all'Africa rispetto a qualsiasi altro media internazionale».
Ovviamente i mezzi economici a disposizione rendono tutto questo possibile. L'emittente può essere vista da 100 milioni di famiglie in 60 paesi, raggiunte anche attraverso i due canali in arabo e inglese, quelli dedicati esclusivamente a sport, documentari e su Youtube.
Oggi i grandi network (Cnn, Fox News, Sky) devono fare i conti con la caduta verticale della pubblicità e una forte crisi di idee. Alla sfida lanciata da Al Jazeera di trasmettere in inglese, ha risposto solo la Bbc (forse oggi la migliore tv occidentale che è riuscita a rimontare le posizioni perdute rispetto alla Cnn, svolgendo un grande lavoro a partire dalla caduta di Saddam in Iraq).
Il servizio in arabo della Bbc (finanziato in toto dal Foreign Office, il ministero degli esteri inglese) ha debuttato lo scorso anno con l'ambizione di raggiungere 20 milioni di spettatori per settimana entro il 2010, con punte di 35 milioni grazie alla radio ed internet. Una scelta ovviamente politica anche perché le risorse per l'apertura di questo nuovo canale sono state reperite con la chiusura di alcuni uffici di corrispondenza nell'est europeo. Insomma il Foreign Office ha ritenuto che il mondo arabo-musulmano ha oggi una priorità politica rispetto al blocco dell' ex Unione Sovietica.
Al Jazeera in Africa è l'emittente televisiva che meglio e più organicamente ha raccontato gli scontri post elettorali in Kenya tra il dicembre 2007 ed il marzo 2008. Numerosi giornalisti e troupes televisive hanno girato in lungo e in largo il paese documentando le diffuse violenze, i massacri di innocenti, i regolamenti di conti tra etnie storicamente in guerra tra loro e bande criminali in lotta per il controllo del territorio. Ma ha saputo investigare anche sulle ragioni storiche di uno scontro che ha radici lontane, risalenti alla indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1963 con la mancata promessa della distribuzione della terra che resta accentrata nelle mani di poche e richissime famiglie di origini kikuyu.
Il Kenya è stato un importante banco di prova per Al Jazeera poiché il paese (nonostante le cicliche vicissitudini, la spietata dittatura di Daniel Arap Moi) resta uno dei più stabili dell'intero continente africano, la cui fedeltà all'occidente (ed in particolare all'Inghilterra) non è mai venuta meno, neanche negli anni delle guerre di liberazione che bruciavano i paesi confinanti.
L'unico personale rilievo che posso fare ai servizi trasmessi è però un eccessivo (e sinceramente inspiegabile) indulgere in immagini forti. Non ho mai infatti compreso il significato della messa in onda di cadaveri bruciati e vilipesi durante quei tragici scontri. Un corpo carbonizzato è un incubo che difficilmente si cancella dalla memoria. Forse perché personalmente ne ho fatto una overdose in Iraq e Kenya. Eppure gli impeccabili cronisti di Al Jazera non hanno fatto sconto agli spettatori di scene truculente. Avrebbero potuto evitarlo senza nulla togliere ai loro racconti.
La tv di Doha è anche l'unica che oggi riesce ancora a realizzare reportage e servizi dalla Somalia martoriata da 19 anni di feroce guerra civile. Se per un cronista occidentale è oggi praticamente impossibile mettere piede a Mogadiscio (anche il contingente di peacekeepers dell' Unione Africana declina ogni responsabilità sull'incolumità dei reporters), Al Jazeera riesce - anche se a fatica - a restituirci un quadro della situazione, specialmente dal punto di vista umanitario.
Al Jazeera è riuscita comunque a primeggiare durante il lungo e doloroso braccio di ferro svoltosi in Zimbabwe tra il dittatore Robert Mugabe ed il leader dell'opposizione Morgan Tsvangirai. É infatti riuscita a trasmettere in diretta (grazie al video lento) ed in esclusiva tutti i convulsi avvenimenti che erano preclusi ai giornalisti di tutto il mondo. A nessuno infatti erano stati concessi i visti di ingresso ed i permessi di lavoro. La diplomazia dell'emittente del Qatar ha ripagato i suoi giornalisti che hanno messo in onda in diretta la conferenza stampa di Tsvangirai dalla ambasciata svedese dove si era rifugiato.
La guerra che a gennaio ha insanguinato la regione del Kivu in Congo ha avuto una buona copertura informativa. Anche in questo caso i motivi economici del conflitto (il controllo dell'estrazione e della commercializzazione di preziosi minerali da parte di sei paesi confinanti che appoggiano tutsi o hutu a seconda della propria convenienza) sono stati evidenziati con adeguati approfondimenti.
L'autonomia di giudizio politico è costata cara ad Al Jazeera, accusata dalla nomenklatura sudanese di essere il megafono delle fazioni ribelli che si battono per la liberazione del Darfur. Certo al regime di Khartoum basta poco per collocare nella lista nera giornalisti "troppo sensibili" alla questione della martoriata regione dove da cinque anni si combatte una guerra sostanzialmente dimenticata che vede contrapposti proprio gruppi islamici.
Una libertà di pensiero che nel giugno del 2004 costò alla tv la sospensione delle trasmissioni da parte del governo algerino, risentito da un dibattito in cui era stata data la voce alle opposizioni.
Il sospetto di essere portavoce di Al Qaeda ha nei fatti creato grandi difficoltà di penetrazione nel mercato degli Stati Uniti dove solo pochi providers diffondono via cavo le sue trasmissioni.
Oggi in Africa si segue Al Jazeera per la qualità e l'autorevolezza della informazione prodotta anche se si avvertono sinistri scricchiolii per la riduzione dei budget ed un maggior controllo politico che nel 2008 hanno portato 15 giornalisti alle dimissioni. Nata con le grandi firme del giornalismo televisivo inglese e statunitense (attirate dalla promessa di libertà professionale e di generosi stipendi), Al Jazeera rappresenta per molti aspetti l'unico riuscito esempio di giornalismo multiculturale, più della stessa Bbc che ha tracciato per prima il solco su questo terreno.
Dallo scorso anno però qualcosa è cambiato. Il giornalista statunitense Dave Marash ha giustificato le sue dimissioni nel 2008 affermando che «la televisione che va in onda ora, sebbene eccellente, non era quella per la quale ero stato reclutato».
Sostanzialmente i giornalisti accusano il Qatar di aver aumentato il controllo sulle sedi distaccate. La redazione centrale deciderebbe quali temi trattare e che tipo di taglio da dare ai servizi, privilegiando gli interessi di Doha.
In Africa, comunque, continua a rappresentare una ventata di novità, spregiudicatezza, freschezza ed autonomia nel panorama informativo per il particolare taglio giornalistico con cui tratta gli argomenti. Le altre emittenti (pubbliche o private) sono costrette a scimmiottarne lo stile, ad inseguirne i filoni senza però raggiungerne le vette.
In fondo ha ragione lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura, quando afferma: «Non mi piace l'Africa in prima pagina, non mi è mai piaciuto il modo che ha l'occidente di guardare alla mia gente. Per voi siamo la terra degli estremi, una riserva di caccia del sensazionalismo: guerra, siccità, corruzione, Ruanda, Darfur, Idi Amin».
Al Jazeera in Africa ci sta provando a capovolgere il punto di vista occidentale, tra mille contraddizioni.
Magari tutti i giornalisti, di tutti i paesi, razze, nazionalità e religioni, tenessero sempre presente proprio il monito di Soyinka che ci ricorda come «l'uomo muore in tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia».
É l'allarme lanciato lo scorso 10 marzo da Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, al summit che ha radunato a Dar es Salaam (Tanzania) i ministri delle finanze dei 53 paesi che compongono il continente africano.
Strauss- Kahn, che non è certo un pericoloso rivoluzionario, ha aggiunto che «se la comunità internazionale ha trovato centinaia di miliardi di dollari per affrontare la crisi globale, non è ammissibile che non possa trovare qualche centinaio di milioni (meno di quanto ha investito per salvare singole aziende private) per i paesi più poveri».
La crisi nata a Manhattan sta lentamente raggiungendo le coste africane e l'impatto sarà durissimo. Le cause vanno ricercate nella contrazione degli aiuti concessi dai paesi sviluppati, nella riduzione delle rimesse in valuta degli emigrati, nel calo nella vendita delle materie prime che spesso costituiscono la principale voce dell'export degli stati africani. Strauss-Kahn (ex ministro francese delle Finanze) prevede per l' Africa un fin troppo ottimistico 3% in crescita per quest'anno di fronte al 5,8% del 2008.
In base ad un recente rapporto della Banca Mondiale, la crisi potrebbe tradursi per le economie africane in un costo che va da un minimo di 215 ad un massimo di 556 miliardi di euro. Ma al di là delle aride cifre il rischio vero è che questa ondata di povertà inneschi violenze e conflitti.
Eppure «l'Africa offre il miglior rendimento di capitale investito del mondo» secondo il ricco uomo d'affari sudanese Mo Ibrahim, uno dei pionieri della telefonia mobile del continente e fondatore di un premio per il buon governo.
Insomma un invito a sfruttare la crisi per favorire gli investimenti privati in un continente che offre ancora prospettive di crescita economica.
Ma tutto questo di cui abbiamo parlato fino ad ora ha trovato adeguata eco sui mezzi di comunicazione di massa italiani e stranieri? Oppure, come al solito, la notizia è stata relegata in qualche stringata riga del "pastone" economico proveniente magari da Bruxelles, sede delle istituzioni finanziarie europee?
Domanda volutamente retorica. Una premessa che serve invece ad introdurci al tema di questo intervento. Che impatto ha in Africa la presenza di Al Jazeera?
Prima del 15 novembre 2006 (quando il canale televisivo satellitare iniziò a trasmettere in lingua inglese anche qui), c'era stato solo un coraggioso ma fallimentare tentativo di lanciare Africa Tv.
L'ambizioso progetto (che nasceva sulle ceneri di analoghi tentativi) prevedeva la presenza di piccole troupes televisive in ognuna delle 53 capitali del continente, con trasmissioni in inglese e francese nella fase di avvio ma con l'obiettivo di offrire anche reportage nelle diverse lingue locali. Anima e motore dell'iniziativa era Salim Amin, figlio di Mohamed Amin, kenyano, uno dei più grandi cameramen e fotogiornalisti del mondo, testimone di quasi 40 turbolenti anni di storia africana, celebrato anche da Ryszard Kapuscinski ne Il Negus, morto in un incidente aereo nel ‘96.
«Desidero dare un punto di vista più equilibrato sull'Africa - spiegava Salim Amin - grazie agli africani piuttosto che attraverso corrispondenti stranieri. I grandi network che coprono con notizie 24 ore su 24 non hanno risorse per raccontare le tante storie che restano in disparte e di cui c'è bisogno per comprendere l'Africa».
Nelle intenzioni dei promotori non si sarebbe dunque parlato solo di fame, guerra e Aids ma l'obiettivo era di proporre storie di successo, infondendo ottimismo attraverso personaggi di moda, sport e intrattenimento. L'idea programmatica era anche di riuscire ad esercitare pressioni sui governi su alcuni temi sociali, politici ed economici importanti.
Purtroppo tanta buona volontà non è stata premiata dagli investitori e l'inizio delle trasmissioni - fissato per il 6 marzo del 2007 - è stato cancellato.
Salim Amin ha intanto creato un'agenzia di informazione che distribuisce filmati sull'Africa.
Al Jazeera International ha avuto il grande merito di illuminare costantemente l'Africa con una informazione a tutto campo proprio nel momento in cui i media occidentali dimostrano un grande disinteresse per questa parte di mondo.
Uffici centrali a Nairobi (Kenya) e Johannesburgh (Sud Africa) ed una rete di corrispondenti distribuiti sul territorio rendono possibile di seguire in tempo reale le vicende africane. Nelle intenzioni anche due redazioni ad Abidjan (Costa d'Avorio) ed Harare, unico network internazionale che ha ottenuto l'autorizzazione di aprire una sede in Zimbabwe.
Uno spiegamento di forze tale da consentire (all'inizio dell'avventura africana nel 2006) a Nigel Parsons, direttore generale dell'emittente, di affermare: «Avremo più uffici e più mezzi riservati all'Africa rispetto a qualsiasi altro media internazionale».
Ovviamente i mezzi economici a disposizione rendono tutto questo possibile. L'emittente può essere vista da 100 milioni di famiglie in 60 paesi, raggiunte anche attraverso i due canali in arabo e inglese, quelli dedicati esclusivamente a sport, documentari e su Youtube.
Oggi i grandi network (Cnn, Fox News, Sky) devono fare i conti con la caduta verticale della pubblicità e una forte crisi di idee. Alla sfida lanciata da Al Jazeera di trasmettere in inglese, ha risposto solo la Bbc (forse oggi la migliore tv occidentale che è riuscita a rimontare le posizioni perdute rispetto alla Cnn, svolgendo un grande lavoro a partire dalla caduta di Saddam in Iraq).
Il servizio in arabo della Bbc (finanziato in toto dal Foreign Office, il ministero degli esteri inglese) ha debuttato lo scorso anno con l'ambizione di raggiungere 20 milioni di spettatori per settimana entro il 2010, con punte di 35 milioni grazie alla radio ed internet. Una scelta ovviamente politica anche perché le risorse per l'apertura di questo nuovo canale sono state reperite con la chiusura di alcuni uffici di corrispondenza nell'est europeo. Insomma il Foreign Office ha ritenuto che il mondo arabo-musulmano ha oggi una priorità politica rispetto al blocco dell' ex Unione Sovietica.
Al Jazeera in Africa è l'emittente televisiva che meglio e più organicamente ha raccontato gli scontri post elettorali in Kenya tra il dicembre 2007 ed il marzo 2008. Numerosi giornalisti e troupes televisive hanno girato in lungo e in largo il paese documentando le diffuse violenze, i massacri di innocenti, i regolamenti di conti tra etnie storicamente in guerra tra loro e bande criminali in lotta per il controllo del territorio. Ma ha saputo investigare anche sulle ragioni storiche di uno scontro che ha radici lontane, risalenti alla indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1963 con la mancata promessa della distribuzione della terra che resta accentrata nelle mani di poche e richissime famiglie di origini kikuyu.
Il Kenya è stato un importante banco di prova per Al Jazeera poiché il paese (nonostante le cicliche vicissitudini, la spietata dittatura di Daniel Arap Moi) resta uno dei più stabili dell'intero continente africano, la cui fedeltà all'occidente (ed in particolare all'Inghilterra) non è mai venuta meno, neanche negli anni delle guerre di liberazione che bruciavano i paesi confinanti.
L'unico personale rilievo che posso fare ai servizi trasmessi è però un eccessivo (e sinceramente inspiegabile) indulgere in immagini forti. Non ho mai infatti compreso il significato della messa in onda di cadaveri bruciati e vilipesi durante quei tragici scontri. Un corpo carbonizzato è un incubo che difficilmente si cancella dalla memoria. Forse perché personalmente ne ho fatto una overdose in Iraq e Kenya. Eppure gli impeccabili cronisti di Al Jazera non hanno fatto sconto agli spettatori di scene truculente. Avrebbero potuto evitarlo senza nulla togliere ai loro racconti.
La tv di Doha è anche l'unica che oggi riesce ancora a realizzare reportage e servizi dalla Somalia martoriata da 19 anni di feroce guerra civile. Se per un cronista occidentale è oggi praticamente impossibile mettere piede a Mogadiscio (anche il contingente di peacekeepers dell' Unione Africana declina ogni responsabilità sull'incolumità dei reporters), Al Jazeera riesce - anche se a fatica - a restituirci un quadro della situazione, specialmente dal punto di vista umanitario.
Al Jazeera è riuscita comunque a primeggiare durante il lungo e doloroso braccio di ferro svoltosi in Zimbabwe tra il dittatore Robert Mugabe ed il leader dell'opposizione Morgan Tsvangirai. É infatti riuscita a trasmettere in diretta (grazie al video lento) ed in esclusiva tutti i convulsi avvenimenti che erano preclusi ai giornalisti di tutto il mondo. A nessuno infatti erano stati concessi i visti di ingresso ed i permessi di lavoro. La diplomazia dell'emittente del Qatar ha ripagato i suoi giornalisti che hanno messo in onda in diretta la conferenza stampa di Tsvangirai dalla ambasciata svedese dove si era rifugiato.
La guerra che a gennaio ha insanguinato la regione del Kivu in Congo ha avuto una buona copertura informativa. Anche in questo caso i motivi economici del conflitto (il controllo dell'estrazione e della commercializzazione di preziosi minerali da parte di sei paesi confinanti che appoggiano tutsi o hutu a seconda della propria convenienza) sono stati evidenziati con adeguati approfondimenti.
L'autonomia di giudizio politico è costata cara ad Al Jazeera, accusata dalla nomenklatura sudanese di essere il megafono delle fazioni ribelli che si battono per la liberazione del Darfur. Certo al regime di Khartoum basta poco per collocare nella lista nera giornalisti "troppo sensibili" alla questione della martoriata regione dove da cinque anni si combatte una guerra sostanzialmente dimenticata che vede contrapposti proprio gruppi islamici.
Una libertà di pensiero che nel giugno del 2004 costò alla tv la sospensione delle trasmissioni da parte del governo algerino, risentito da un dibattito in cui era stata data la voce alle opposizioni.
Il sospetto di essere portavoce di Al Qaeda ha nei fatti creato grandi difficoltà di penetrazione nel mercato degli Stati Uniti dove solo pochi providers diffondono via cavo le sue trasmissioni.
Oggi in Africa si segue Al Jazeera per la qualità e l'autorevolezza della informazione prodotta anche se si avvertono sinistri scricchiolii per la riduzione dei budget ed un maggior controllo politico che nel 2008 hanno portato 15 giornalisti alle dimissioni. Nata con le grandi firme del giornalismo televisivo inglese e statunitense (attirate dalla promessa di libertà professionale e di generosi stipendi), Al Jazeera rappresenta per molti aspetti l'unico riuscito esempio di giornalismo multiculturale, più della stessa Bbc che ha tracciato per prima il solco su questo terreno.
Dallo scorso anno però qualcosa è cambiato. Il giornalista statunitense Dave Marash ha giustificato le sue dimissioni nel 2008 affermando che «la televisione che va in onda ora, sebbene eccellente, non era quella per la quale ero stato reclutato».
Sostanzialmente i giornalisti accusano il Qatar di aver aumentato il controllo sulle sedi distaccate. La redazione centrale deciderebbe quali temi trattare e che tipo di taglio da dare ai servizi, privilegiando gli interessi di Doha.
In Africa, comunque, continua a rappresentare una ventata di novità, spregiudicatezza, freschezza ed autonomia nel panorama informativo per il particolare taglio giornalistico con cui tratta gli argomenti. Le altre emittenti (pubbliche o private) sono costrette a scimmiottarne lo stile, ad inseguirne i filoni senza però raggiungerne le vette.
In fondo ha ragione lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura, quando afferma: «Non mi piace l'Africa in prima pagina, non mi è mai piaciuto il modo che ha l'occidente di guardare alla mia gente. Per voi siamo la terra degli estremi, una riserva di caccia del sensazionalismo: guerra, siccità, corruzione, Ruanda, Darfur, Idi Amin».
Al Jazeera in Africa ci sta provando a capovolgere il punto di vista occidentale, tra mille contraddizioni.
Magari tutti i giornalisti, di tutti i paesi, razze, nazionalità e religioni, tenessero sempre presente proprio il monito di Soyinka che ci ricorda come «l'uomo muore in tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia».
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