Articolo 21 - Editoriali
In piazza per le libertĂ eterne
di Federico Orlando
da Europa
Quando sbarcarono per la seconda volta in Europa, i soldati americani, che Berlusconi da ragazzo visitava nei cimiteri di guerra, accompagnato da suo padre, noi che eravamo qualche anno avanti a lui nelle scuole elementari restammo storditi non dalle loro bombe ma dal loro linguaggio. Avevano scritto sulle bandiere concetti inusuali, “Libertà di pensiero, libertà di parola, libertà dal bisogno, libertà dalla paura”. Le avevano chiamatele “Libertà atlantiche” alla conferenza angloamericana di Terranova (1941): e su quelle parole, vinta la guerra, fu poi fondata l’alleanza atlantica, contro nuovi pericoli. Sabato prossimo 19, alla manifestazione indetta dal sindacato dei giornalisti, e da associazioni della cultura, della scuola, dello spettacolo, del volontariato, dei giovani, a piazza del Popolo, andremo per le stesse libertà, con lo stesso spirito, arrivato fino al 2009 dal profondo Novecento. Perché la tentazione del bavaglio è eterna e pressoché universale, e lo è altrettanto la volontà di parlare per esprimere il pensiero e combattere la paura delle crisi politiche e civili.
Il film è lungo e continua. A Venezia ne abbiamo visto le ultime sequenze (per ora), donne iraniane in verde contro il dittatore, che alla vigilia delle elezioni aveva espulso da Teheran tutti i giornalisti e le tv del mondo. In Cecenia e in altri possedimenti zaristi continuano a morire donne e uomini della carta stampata e della tv. I dittatori liberisti cinesi ripuliscono internet dalle parole demoniache (libertà, democrazia, pluralismo, relativismo, illuminismo) e la chiamano lotta alla pornografia. Nella patria di Erasmo il fondamentalista islamico uccide il regista “sacrilego” e un intero popolo si autocensura e ammutolisce. Colpirne uno per educarne cento. In Italia la crisi economica si combatte tagliando sulla scuola (dello Stato), sull’editoria, sul cinema, sul teatro, sulla lirica (il “distintivo italiano che frutta immagine nel mondo e ricchezza”, secondo Zeffirelli), e costringe le aziende a cambiare i direttori dei loro giornali per avere aiuti del governo, merce di scambio (Stampa, 24 Ore, Corriere della sera, Messaggero, Mattino); i tg pubblici cancellano le notizie per sostituirle con pseudocommenti a notizie non date. Il premier chiede ad Alfano una legge che tagli i ponti tra inquirenti e cronisti, invita gli imprenditori a non dare pubblicità ai giornali che lo criticano, non disdegna i giudici (che normalmente squalifica) per querele milionarie che precipitino editori e giornalisti nella paura e nel bisogno e li costringano a rinunciare al pensiero e alla parola. Le quattro “parole atlantiche” nell’Italia del 2009.
Ieri l’ex presidente Pera, commentando gli ultimi “casi” (Boffo, Fini, la Repubblica, l’Unità), ne parlava come del risultato di una “doppia rovina”: della politica, che viene delegata al giornalismo essendo ibernati i partiti e le istituzioni, e del giornalismo, che si riduce a fare campagne di moralizzazione “al fine di mero scandalo”. Non so se il deluso professore abbia visto lo stesso “mero fine” nelle campagne di moralizzazione dei giornali americani, che costrinsero Nixon a dimettersi dalla presidenza e Clinton a evitare il bis umiliandosi di fronte al paese per una scappatella da studente, consumata in luogo improprio. Ma il problema, che se individuato e affrontato potrebbe aiutare gli italiani, è come e perché siano venute quelle due rovine. Possiamo sospettare che esse vengano dalla cultura, dagli interessi, dalle alleanze, dallo stile di vita del Capo Supremo, al quale lo stesso Pera in altri tempi spandeva incensi? Possiamo parlare di un’avventura politica fondata sull’estraneità alla democrazia e al costituzionalismo liberale?Di classismo borghese a tutela del privilegio e dell’illegalità di massa che lo sostiene” Della mistificazione di una pseudoideologica da guerra fredda? Di concordatarismo a perdere, come garanzia di indulgenza e remissione dei peccati? Di monopolio televisivo e di conflitto d’interesse accantonato per consenso della Casta?
A molti italiani, trascinati alla democrazia dai vincitori angloamericani, dalla sferza di De Gasperi e dal terrore di Stalin, ma sempre carichi di nostalgie autoritarie, paternalistiche, corporative, anarcoidi, evasive, eversive, il capo del partito mediatico di massa, come lo definisce Ilvo Diamanti, è apparso da subito l’uomo in cui specchiarsi. Non peraltro, in questi giorni ha superato la durata al governo di De Gasperi. Ma il partito mediatico di massa, che miscela i linguaggi del calcio, della pubblicità, della tv e della politica, diffondendo una cultura pagana ossequiente al Soglio, non è un partito o un movimento, ma una fiumana che si muove col telecomando; non ha bisogno di istituzioni, perché gli basta l’impulso elettronico; non crede alle regole del gioco democratico, perché non è la democrazia il suo gioco; non crede alla giustizia, perché la vuole riservata solo a chi disturba la tranquilla digestione del blocco sociale; non gli importa se i giornali vivano, perché gli basta il Tg, tanto meglio se nasconde le notizie, e rifiuta che un simile atarassia gli venga turbata da dibattiti, inchieste, polemiche di chi non si limita alla recita, come molti politici anche d'opposizione. L’appello di Berlusconi ai giovani di Giorgia Meloni, “Non leggete i giornali”, non è l’urlo di un barbaro analfabeta, ma piuttosto la bandierina tricolore che i palazzinari mettono al completamento dei loro edifici, magari abusivi.
La manifestazione del 19 settembre a Piazza del Popolo, indetta, ripeto, dagli organismi rappresentativi dell'informazione, da libere associazioni sociali e da forze della cultura e dell'istruzione , e a cui si spera aderiscano anche partiti e sindacati, va dunque oltre i “casi” di queste settimane, gli scandali, le polemiche, e mira dritto al cuore del problema dell’informazione, che è il problema della democrazia, che è il problema della distribuzione del potere e dell’organizzazione dei poteri. Nessuno ci metterà le mani sopra, perché è cosa di tutti. La democrazia dei lettori-elettori, appunto. Prima che il premier, abituato ai consigli d’amministrazione, la trasformi del tutto in mercato di spettatori-consumatori. Come in Cina.
Quando sbarcarono per la seconda volta in Europa, i soldati americani, che Berlusconi da ragazzo visitava nei cimiteri di guerra, accompagnato da suo padre, noi che eravamo qualche anno avanti a lui nelle scuole elementari restammo storditi non dalle loro bombe ma dal loro linguaggio. Avevano scritto sulle bandiere concetti inusuali, “Libertà di pensiero, libertà di parola, libertà dal bisogno, libertà dalla paura”. Le avevano chiamatele “Libertà atlantiche” alla conferenza angloamericana di Terranova (1941): e su quelle parole, vinta la guerra, fu poi fondata l’alleanza atlantica, contro nuovi pericoli. Sabato prossimo 19, alla manifestazione indetta dal sindacato dei giornalisti, e da associazioni della cultura, della scuola, dello spettacolo, del volontariato, dei giovani, a piazza del Popolo, andremo per le stesse libertà, con lo stesso spirito, arrivato fino al 2009 dal profondo Novecento. Perché la tentazione del bavaglio è eterna e pressoché universale, e lo è altrettanto la volontà di parlare per esprimere il pensiero e combattere la paura delle crisi politiche e civili.
Il film è lungo e continua. A Venezia ne abbiamo visto le ultime sequenze (per ora), donne iraniane in verde contro il dittatore, che alla vigilia delle elezioni aveva espulso da Teheran tutti i giornalisti e le tv del mondo. In Cecenia e in altri possedimenti zaristi continuano a morire donne e uomini della carta stampata e della tv. I dittatori liberisti cinesi ripuliscono internet dalle parole demoniache (libertà, democrazia, pluralismo, relativismo, illuminismo) e la chiamano lotta alla pornografia. Nella patria di Erasmo il fondamentalista islamico uccide il regista “sacrilego” e un intero popolo si autocensura e ammutolisce. Colpirne uno per educarne cento. In Italia la crisi economica si combatte tagliando sulla scuola (dello Stato), sull’editoria, sul cinema, sul teatro, sulla lirica (il “distintivo italiano che frutta immagine nel mondo e ricchezza”, secondo Zeffirelli), e costringe le aziende a cambiare i direttori dei loro giornali per avere aiuti del governo, merce di scambio (Stampa, 24 Ore, Corriere della sera, Messaggero, Mattino); i tg pubblici cancellano le notizie per sostituirle con pseudocommenti a notizie non date. Il premier chiede ad Alfano una legge che tagli i ponti tra inquirenti e cronisti, invita gli imprenditori a non dare pubblicità ai giornali che lo criticano, non disdegna i giudici (che normalmente squalifica) per querele milionarie che precipitino editori e giornalisti nella paura e nel bisogno e li costringano a rinunciare al pensiero e alla parola. Le quattro “parole atlantiche” nell’Italia del 2009.
Ieri l’ex presidente Pera, commentando gli ultimi “casi” (Boffo, Fini, la Repubblica, l’Unità), ne parlava come del risultato di una “doppia rovina”: della politica, che viene delegata al giornalismo essendo ibernati i partiti e le istituzioni, e del giornalismo, che si riduce a fare campagne di moralizzazione “al fine di mero scandalo”. Non so se il deluso professore abbia visto lo stesso “mero fine” nelle campagne di moralizzazione dei giornali americani, che costrinsero Nixon a dimettersi dalla presidenza e Clinton a evitare il bis umiliandosi di fronte al paese per una scappatella da studente, consumata in luogo improprio. Ma il problema, che se individuato e affrontato potrebbe aiutare gli italiani, è come e perché siano venute quelle due rovine. Possiamo sospettare che esse vengano dalla cultura, dagli interessi, dalle alleanze, dallo stile di vita del Capo Supremo, al quale lo stesso Pera in altri tempi spandeva incensi? Possiamo parlare di un’avventura politica fondata sull’estraneità alla democrazia e al costituzionalismo liberale?Di classismo borghese a tutela del privilegio e dell’illegalità di massa che lo sostiene” Della mistificazione di una pseudoideologica da guerra fredda? Di concordatarismo a perdere, come garanzia di indulgenza e remissione dei peccati? Di monopolio televisivo e di conflitto d’interesse accantonato per consenso della Casta?
A molti italiani, trascinati alla democrazia dai vincitori angloamericani, dalla sferza di De Gasperi e dal terrore di Stalin, ma sempre carichi di nostalgie autoritarie, paternalistiche, corporative, anarcoidi, evasive, eversive, il capo del partito mediatico di massa, come lo definisce Ilvo Diamanti, è apparso da subito l’uomo in cui specchiarsi. Non peraltro, in questi giorni ha superato la durata al governo di De Gasperi. Ma il partito mediatico di massa, che miscela i linguaggi del calcio, della pubblicità, della tv e della politica, diffondendo una cultura pagana ossequiente al Soglio, non è un partito o un movimento, ma una fiumana che si muove col telecomando; non ha bisogno di istituzioni, perché gli basta l’impulso elettronico; non crede alle regole del gioco democratico, perché non è la democrazia il suo gioco; non crede alla giustizia, perché la vuole riservata solo a chi disturba la tranquilla digestione del blocco sociale; non gli importa se i giornali vivano, perché gli basta il Tg, tanto meglio se nasconde le notizie, e rifiuta che un simile atarassia gli venga turbata da dibattiti, inchieste, polemiche di chi non si limita alla recita, come molti politici anche d'opposizione. L’appello di Berlusconi ai giovani di Giorgia Meloni, “Non leggete i giornali”, non è l’urlo di un barbaro analfabeta, ma piuttosto la bandierina tricolore che i palazzinari mettono al completamento dei loro edifici, magari abusivi.
La manifestazione del 19 settembre a Piazza del Popolo, indetta, ripeto, dagli organismi rappresentativi dell'informazione, da libere associazioni sociali e da forze della cultura e dell'istruzione , e a cui si spera aderiscano anche partiti e sindacati, va dunque oltre i “casi” di queste settimane, gli scandali, le polemiche, e mira dritto al cuore del problema dell’informazione, che è il problema della democrazia, che è il problema della distribuzione del potere e dell’organizzazione dei poteri. Nessuno ci metterà le mani sopra, perché è cosa di tutti. La democrazia dei lettori-elettori, appunto. Prima che il premier, abituato ai consigli d’amministrazione, la trasformi del tutto in mercato di spettatori-consumatori. Come in Cina.
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