di Beppe Lopez*
Grazie al suo core business (Travaglio, la critica documentata e sistematica al berlusconismo, l’azione della magistratura più coraggiosa contro il malaffare pubblico), il Fatto Quotidiano ha confermato, già in questa sua prima settimana di vita, la sua utilità politica e civile. In un Paese che soffre di un sistema informativo storicamente malato di subalternità al potere politico e negli ultimi tempi quasi totalmente nel pieno, diretto e brutale controllo (o proprietà) del potere politico-affaristico, la squadra messa insieme da Antonio Padellaro tende ad assicurare ogni giorno un contributo di denuncia, di analisi e di possibile aggregazione che potrebbe cambiare la storia di questo Paese.
E’ tale la separatezza fra cittadini/elettori e politica, fra cittadini/lettori e sistema giornalistico, fra cittadini/telespettatori e sistema televisivo; è tale la mancanza di rappresentatività del sistema politico e di descrizione giornalistica del Paese reale, che l’esistenza stessa di un’iniziativa come il Fatto potrebbe avere sviluppi imprevedibili (si pensi solo a quanto apparentemente irrilevante fu all’inizio Mani Pulite e alla svolta epocale che proprio Tangentopoli, a parere della più avvertita storiografia, ha rappresentato per i destini del Paese). Va in questo senso anche l’approccio critico prevalentemente non qualunquistico che ha qualificato in questa settimana il Fatto. Non si fa di ogni erba un fascio. Si osserva e si riporta con disincanto l’andamento del dibattito fra i partiti, all’interno dei partiti e soprattutto del centrosinistra, a cominciare dal Pd e dalla stessa Italia dei Valori. Nella sostanza, esaltando le contraddizioni e promuovendo ciò che di buono, miracolosamente, sopravvive pur arrancando nella vita politica e istituzionale. Non è molto. Ma con questo dobbiamo fare i conti. E il Fatto sembra volerli fare.
Detto questo, vale la pena – specie per chi non è indifferente a ciò che potrebbe capitare a un giornale (il primo) totalmente libero da condizionamenti proprietari e insieme autoesclusosi dalle provvidenze pubbliche, ne auspica il progressivo irrobustimento e radicamento, e considera un’autentica disgrazia sociale la sola possibilità che esso possa incontrare difficoltà tali da metterne in discussione la sopravvivenza – cercare di capire anche in che cosa quell’iniziativa mostra inadeguatezze e manchevolezze. Peraltro, in una buona misura inevitabili nella fase di avvio di un'impresa così ambiziosa.
Diciamo subito, con franchezza, due cose in termini schematici e poi cerchiamo di ragionarci. Primo, Travaglio funziona ma Travaglio non è un giornale, tanto meno quotidiano. Secondo, il Fatto – si può dire? – è brutto e fatto male.
Persino con Santoro, Travaglio non è e non potrebbe essere una trasmissione televisiva: è un pezzo, importante, di una trasmissione televisiva. Ma, appunto, ci vuole una trasmissione televisiva. Qui, ora, ci vuole un giornale. E l’attuale giornale il Fatto è "brutto" perché privo di elementari attenzioni grafiche (caratteri, impaginazione, rubriche, ecc.) proprie di chi cerca di piacere e conquistare lettori. Certo, in questo caso si tratta di lettori molto motivati e molto interessati al contenuto. Ma questo non basta a reggere la continuità e la crescita di un quotidiano. La cultura grafica di questi lettori e della grande maggioranza degli italiani – trent’anni di televisione commerciale e di pubblicità globale, e trent’anni anche di Repubblica – hanno impresso una traccia indelebile, spesso inconsapevole, nelle loro abitudini e scelte. Sottovalutarlo, come parrebbero fare gli uomini di Padellaro, è un gravissimo errore.
Il rapporto fra contenuto e contenitore, in un quotidiano, è strettissimo, complesso e attraversato da forti interferenze reciproche. Che certamente non si possono inseguire e definire in maniera particolareggiata e ossessiva, ma di cui bisogna essere molto consapevoli. In questo caso, partendo dal core business-Travaglio (Padellaro, Colombo, Gomez, ecc.), occorreva e occorre un buon contenitore. Che, se fatto bene, articola naturalmente e sviluppa anche imprevedibilmente – sulla base della professionalità e delle tecniche giornalistiche, e sulla spinta delle notizie e degli eventi – il core business originario. Che non solo rimane core business, ma si snoda, si adatta alla realtà, coglie le opportunità, si allarga, si incrementa, si espande…
Un giornale è fatto bene se gradevole e se valorizza il contenuto (il core business!). Alla buona grafica, a un’efficace impaginazione, a leggibili caratteri, a stimolanti rubriche, si aggiungano la titolazione e quelle che in gergo redazionale si chiamano “le idee”. Tutto questo, in questa settimana, sembra estraneo alla precipua attenzione dei confezionatori del Fatto, che parrebbero tutti concentrati, anzi inchiodati sul core business duro e puro, sottovalutando tutto il resto. E si vede. E, alla lunga, si toccherebbe con mano…
Parlando ancora francamente, sinora abbiamo registrato: una grafica approssimativa, un’impaginazione a tratti sgangherata, caratteri illeggibili (e omologanti), titolazione burocratica o al contrario stravagante, un rubricario perlopiù inutile quando non dozzinale, ma soprattutto una inadeguata pratica delle “idee”. Una pratica che fa la differenza fra una redazione e l'altra, fra un giornale e l'altro.
Certo, specie in questo caso, il desk dovrebbe produrre idee collegate al core business, suggerite dal core business, allarganti il core business, sfruttanti il core business, tirando le naturali conseguenze dal core business, allargando la sfera d’azione del core business, suggerendo materia e risorse al core business, ma idee. Idee di utilizzazione del materiale dato, idee di collocazione degli argomenti e delle notizie, idee di titolazione, idee di servizi e di inchieste…
Insomma, sinora il Fatto ha messo in pagina – non valorizzandoli – opinioni, corsivi e corsivetti, con l’aggiunta del rendiconto (benemerito) delle iniziative della magistratura ignorate dal resto dell’informazione. E fin qui ha fatto quello che ci si aspettava e in molti speravano, guadagnandosi il ruolo mediatico che al “giornale di Padellaro e Travaglio” spettava di diritto.
A questo punto, l’investimento di fiducia e le attese da esso determinati sin dalla vigilia della sua uscita in edicola meritano che “il resto” e “il contenitore” siano all’altezza della situazione. E della sua stessa testata: il Fatto non deve e non può - concentrandosi prevalentemente sulle opinioni - diventare stabilmente una contraddizione in termini.
*da infodem