di Nicola Tranfaglia
Quello che il procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso ha comunicato ieri deve essere valutato non soltanto come rettifica di un depistaggio di stato durato più di vent’anni sul tentativo di assassinio del giudice Falcone avvenuto il 20 giugno 1989 all’Addaura, tre anni prima della strage di Capaci ma anche come elemento decisivo per ricostruire complessivamente il periodo che precede la fine della guerra fredda e l’ingresso dell’Italia nella transizione politica che condurrà all’ascesa di Silvio Berlusconi. Se non si collega il tentativo di assassinio del giudice simbolo per la lotta alla mafia con quello che sta succedendo nel mondo e in Italia per il cambiamento degli equilibri politici e mafiosi, c’è il rischio di non cogliere gli aspetti decisivi di quella svolta così importante a livello internazionale ma anche italiano, visto che l’Italia era stato un paese di frontiera in quella guerra fredda. La peculiarità dell’Italia era quella di avere sia la mafia che il più grande partito comunista in Occidente. Peraltro sempre in Italia c’è stato un fenomeno mafioso da sempre in stretto contatto con la politica nazionale, dotato di un sistema di referenti politici attivi e funzionanti. La nuova ricostruzione dell’attentato, che si avvale delle indagini condotte finalmente dopo la scoperta del lungo depistaggio, ha individuato un fatto decisivo. Davanti all’Addaura c’erano due gruppi: uno a terra formato da mafiosi della famiglia dell’Acquasanta incaricati di far esplodere i candelotti di dinamite. L’altro era formato da due sommozzatori, Antonino Agostino ed Emanuele Piazza che facevano parte dei servizi segreti italiani e non erano d’appoggio al primo gruppo ma, al contrario, volevano evitare che i candelotti esplodessero e il giudice fosse ucciso in quel momento dai mafiosi. I due agenti dei servizi sono stati uccisi: il primo sommozzatore Agostino con la moglie Ida Castellucci, è stato ammazzato il 5 agosto 1989, due mesi dopo l’Addaura. La polizia non ha mai scoperto gli assassini e neppure Totò Riina, che aveva ordinato un’inchiesta interna a Cosa Nostra, è riuscito a sapere chi fossero gli assassini. Il secondo sommozzatore Emanuele Piazza è stato ucciso un anno dopo, il 15 marzo del 1990, da mafiosi avvertiti da una misteriosa “talpa” che lo attirarono in una trappola e lo strangolarono. E’ significativo che le indagini avviate per questi assassini furono indirizzate - come ha sempre suggerito la mafia in tutta la sua storia - in “vicende private” legate a “piste passionali.” Qualcuno forse ricorderà - e lo ha fatto a ragione anche il procuratore Grasso - che persino per i sindacalisti uccisi dalla mafia negli ultimi cinquant’anni si è tentato a lungo di sostituire la verità con versioni legate ai casi privati delle vittime. Se una simile ricostruzione, che nasce da indagini giudiziarie opportunamente riscontrate, si collega alle prime intuizioni di Giovanni Falcone che parlò di “menti raffinatissime” e accennò persino, è una testimonianza dello stesso procuratore, che ebbe la sensazione di esser stato salvato dal poliziotto ucciso due mesi dopo, non si può non arrivare alle conclusioni più ampie invocate da Grasso e che chi scrive ha già avanzato più di dieci anni fa nel saggio Un capitolo del doppio stato. La stagione delle stragi e dei terrorismi 1969-1984 pubblicato nell’ultimo volume della Storia della repubblica Einaudi nel 1997. Io penso, d’accordo con il procuratore, all’assassinio del presidente della regione siciliana Pier Santi Mattarella, al segretario del Pci siciliano Pio La Torre, a generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ma anche a molte altre vicende accadute nei decenni precedenti e questa è un’aggiunta storicamente importante, che l’organizzazione mafiosa sia, per riportare le parole usate proprio da Grasso,”come un braccio armato” che interpreta e si rende partecipe di interessi e favori che trascendono quella che è la propria finalità “istituzionale”. Se la vicenda dell’89 ci conduce a queste considerazioni non si può limitare il ragionamento a un episodio ma occorre riconsiderare il periodo complessivo e farne discendere le conseguenze necessarie sul piano storico. Ma questo significa che occorre andare avanti con le ricerche giudiziarie, ma anche con quelle storiche, sull’Italia repubblicana, come non si sta facendo da parte degli studiosi perché lo Stato e la classe politica mostrano un assai scarso interesse a raggiungere la verità. Al contrario, oggi si ha la netta impressione che chi governa opponga ogni ostacolo contro indagini che possano contribuire a modificare le versioni ufficiali degli avvenimenti dell’ultimo settantennio.