di Nicola Tranfaglia
Francesco Cossiga ha concluso una vita ricca di contraddizioni, rivendicando la modestia di un funerale privato e la suspense di un testamento che nessuno conoscerà per molto tempo.
Segreti e sorprese hanno caratterizzato, anche in passato, l’uomo politico sardo, noto per la bizzarria di molte sue uscite ma capace sempre di provocare consensi e contrasti insieme di fronte alle sue posizioni politiche.
Ha vissuto un periodo drammatico, dal punto di vista personale e politico, come ministro dell’Interno di un governo Andreotti in cui dovette fare scelte dolorose di fronte al rapimento del compagno di partito Aldo Moro nel 1978.
Dovette sostenere allora la strategia della fermezza e del rifiuto di ogni trattativa con le Brigate Rosse scelta dal suo partito e da quello comunista ma, proprio in quell’occasione, nominò un comitato d’emergenza i cui componenti erano 8 su 10 membri della loggia P2, cioè proprio di quel gruppo massonico che attentava allo stato di diritto in quel periodo. Né ha mai spiegato successivamente una simile, pericolosa combinazione.
In quegli anni, come ministro dell’Interno, infiltrò spie nei gruppi extraparlamentari italiani, seguendo la direttiva emanata già nel 1967 dal generale Westmoreland della Nato e mandò i carri armati a fronteggiare i manifestanti a Bologna nel 1977. Gli viene attributo l’ordine che spinse poliziotti e carabinieri a sparare e uccidere lo studente Lorusso a Bologna e Giorgiana Masi a Roma.
Non ha mai rivelato i molti segreti di Stato di cui era depositario a proposito dei poteri occulti che hanno più volte interferito nella nostra storia.
Ha attribuito alla Cia la strage di piazza Fontana ma ai Palestinesi quella della stazione di Bologna. Ha ritenuto che i segreti di Stato non potessero essere svelati e anche quando, come capo dello Stato, è stato giudicato un “picconatore”, di fatto si è guardato bene dal dire cose che avrebbero potuto danneggiare lo Stato o il suo partito.
Ha invece attaccato, e a fondo, un vero servitore dello Stato quale è stato il prefetto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il giudice Livatino, che apostrofò come il “giudice ragazzino”, tutti e due assassinati poco dopo da Cosa Nostra.
Insomma è stato, come molti altri politici democristiani, dominato dai dogmi della guerra fredda e della lotta al comunismo sovietico, come alle sue propaggini occidentali.
Ed ha seguito, con ostinazione, la sua visione atlantica e filoamericana, riuscendo a convincere il capo dei postcomunisti Massimo D’Alema, che egli considerava forse a torto il miglior erede di Enrico Berlinguer, a decidere come capo del governo nel 1998 la guerra con la Nato in Kossovo contro la Serbia.
Complessivamente il giudizio storico finale che si può dare sulla sua vicenda è che fu un politico cattolico che ha avuto un ruolo di rilievo in alcuni momenti cruciali della storia repubblicana ma che non si è mai allontanato, al di là delle sue imprevedibili battute, da una visione cristallizzata fin dagli anni quaranta del Novecento, quella in cui De Gasperi e Pio XII dominavano la scena italiana.