di Oliviero Beha
Grandissimo Vecchio Grande, grandissimo Mario: sei riuscito a cambiare di segno al suicidio, a trasformarlo semplicemente nel contrario della nascita, in un fine vita “naturalmente” simile, davvero simile all’ultima fermata di un viaggio dove tu e solo tu hai deciso di scendere. Detta ancora più brutalmente,hai “normalizzato” il suicidio, vocabolo altrimenti spaventoso che ti sconsacra a priori e del quale -come scriveva Wittgenstein- “se non se ne può parlare bisogna tacere”. E invece se ne parla eccome. Uno straordinario cavaliere del Novecento che decide lui quando e come smontare senza farsi disarcionare dalla vita, in un modo semplice e “cinico”, ma alla Diogene, quasi la vita fosse una botte e la semplicità la vita animalesca di un cane. Adesso si ritrovano tra le mani un suicidio cui non erano abituati, un suicidio pieno, una libertà assoluta, un film, l’ultimo ma non l’ultimo, girato soltanto da te e con mano ferma. Come diresti tu, “sono cazzi…!”.
Nell’ultima telefonata, di qualche giorno fa, per invitarti a una trasmissione alla quale “avresti partecipato se solo me la sento, altrimenti vieni tu qui a casa”, avevamo parlato con lo stesso tono di voce di un libro sul consumismo delle prossime feste, “Babbo Natale è uno stronzo”, e della memoria delle stragi a partire da quella di Piazza Fontana. Si era affacciato sul filo, insieme alla depressione e alla convivenza ormai lunga con l’idea della morte, infittita dopo la scomparsa di un amico caro, di tumore, mesi fa (“ma sarà morto contento?beh, contento…sereno, almeno…”), quel singulto di indignazione che ultimamente sempre più spesso tiravi fuori nei confronti del Paese ridotto così e degli italiani mussoliniani, berlusconiani e pecoroni, anche quando erano antifascisti e antiberlusconiani.
Tre anni fa l’intervista in cui sentenziavi “questa classe dirigente non potrebbe dirigere neppure un ufficio postale”, ripresa in giro per il mondo e da te ripetuta senza stancarti in privato e in pubblico (la manifestazione del Popolo Viola, in marzo, a Piazza del Popolo…), aveva come sturato quello che avevi sempre pensato, mostrato e dimostrato in tutti i tuoi film.Quella farsesca tragicommedia all’italiana in cui lenivi il sarcasmo con l’ironia e rendevi percepibile e popolare l’ironia con la spezia piccante del sarcasmo.
Mi sono domandato spesso in questi anni perché i Grandi Vecchi nostrani quando volgono alla fine “non vuotano il sacco”, quasi dovessero portarsi nell’aldilà il bagaglio a mano della loro libertà, della loro autonomia critica,del loro coraggio intellettuale.Per farsene che,poi…Forse semplicemente non erano “Grandi Vecchi” e recitavano una parte. Ebbene, tu no, Mario, non ne hai mai fatto questione di età.Sei sempre stato quello che eri, fossi pure Mario Monicelli, e solo a non voler capire o a voler capire altro ti si dava del cinico nel modo becero/calcistico di oggi, o del cattivo quando la tua frugalità nel vivere, nel mangiare, nel guardare in faccia persone e cose era una patente di naturalezza.E non nasciamo naturalmente cattivi, non è vero? Trattavi Sartre come il “pittore” che ti affrescava casa, sapendo però fino al midollo la differenza tra i due.Non avevi timore né della vita né della morte.
Ti divertivi girando,e l’impatto spiccio con quello che ti capitava a tiro ti ha preservato da involuzioni e volute di fumo.Sei stato materialissimo e immateriale.Un Maestro, dicono, in chiave cinematografica.Un Maestro che insegnava ciò che non sapeva, ma ciò che sentiva, dico io, quindi un Maestro vero.Questa verità ti sei portato dietro,insieme a una leggerezza rara. Gli equivoci ai posteri, e ai postumi, come sempre.Grazie, Mario.