di Daniela de Robert
La Tv del dolore, le notizie strillate, la ricerca delle lacrime, della rabbia, della richiesta di vendetta, dell’odio gridato, del razzismo, della vendetta. È questa informazione che provoca sgomento in chi, come con Corinno Scotti parroco di Brembate, si trova all’improvviso catapultato dentro il circo mediatico. È questa ricerca morbosa di emozioni forti da dare in pasto al pubblico. In nome dell’audience o delle copie vendute. Un’informazione che si basa su “domande insulse”, come le definisce don Corinno, su appostamenti davanti alla casa dei genitori di Yara per carpire un volto, una lacrima, una parola. Che cerca qualcuno da sbattere davanti alla telecamera per raccontarci qualcosa purché sia. Come è successo ad Avetrana, dove i giornalisti, dopo aver sfruttato la morbosità della gente, hanno gridato allo scandalo perché era nato il turismo dell’orrore, sui luoghi del delitto.
La cronaca della scomparsa di Yara non ci ha risparmiato niente. Neanche la tentazione del razzismo sempre pronto a venire fuori, con il fermo del giovane marocchino, facile colpevole, e con i titoli che richiamavano alla sua nazionalità. Per poi scoprire che – ancora una volta – l’uomo nero non c’entrava niente.
Abbiamo molto da imparare dalla dignità e dalla compostezza della famiglia di Yara, dai suoi genitori, dal loro silenzio. Abbiamo molto da imparare dal parroco che invece che gridare contro chi ha compiuto il male ha ricordato che nessuno è innocente.
Fermarsi a pensare fa bene. Come ci ha invitato a fare Mario Calabresi durante il caso Avetrana quando ha scritto sulla Stampa: “Oggi si è fatta strada in Italia una strana concezione dell’informazione che si potrebbe sintetizzare in un gesto: quello di sollevare il lenzuolo e spingere tutti a fissare quello che c’è sotto. Molti restano incollati all’immagine terribile, altri sfuggono, alcuni cominciano a provare disgusto”. E come ci invita oggi a fare don Corinno.