di Giulia Tosoni*
Mia madre ha 60 anni, è in pensione da due dopo 35 da insegnante, il 13 febbraio sarà in piazza. Partecipa da decenni alle manifestazioni della società civile, ha smesso da un bel po’ di militare nei partiti, conserva ancora la fiducia nel sindacato, nel volontariato, nelle associazioni. Ha cresciuto due figli, lavorando in casa almeno quanto fuori. Mia madre è indignata, ma non da oggi. Sono quindici anni che è indignata, arrabbiata e sconvolta per l’arrivo in politica e alla guida del Paese di un uomo che- forse- rappresenta così bene le pulsioni dell’italiano medio, ma – di sicuro- è portatore di un sistema di valori opposto e contrario a quelli per cui lei si è sempre battuta, che ha cercato di trasmettere a noi figli, che avrebbe voluto prevalessero nell’Italia che ci consegnerà.
Il 13 febbraio mia madre sarà in piazza, non contro altre donne, ma per un’altra Italia, migliore, di certo, almeno nelle intenzioni. Lei non ha nulla contro le veline: le fanno un po’ pena e tristezza, forse perché ne ha conosciute diverse, almeno aspiranti tali, non attraverso la TV, ma attraverso temi in classe pieni di “xchè” e di “qlc” e di “tvb”, in cui idee e sentimenti scivolavano sopra la mancanza di fantasia nell’immaginare se stesse e di forza e coraggio nel costruirsi simili a quel sogno.
Parlo di mia madre, perché la manifestazione “Se non ora quando” è fatta per lei: io andrò con lei, non il contrario. Lo dico con amarezza, perché penso che si tratti di una piazza giusta e sacrosanta, come lo sono tutte le piazze che in questo momento rivendicano il bisogno di un cambiamento, di un sussulto di civiltà e di democrazia, di un’ondata di dignità per la nostra gente. Lo dico perché sento tante mie coetanee- antiberlusconiane convinte- reagire con imbarazzo e con un pizzico di rabbia all’appello della manifestazione: dicono che non si sentono indignate dal comportamento di altre donne, perché loro possono guardarsi allo specchio con serenità, ma ogni scelta diversa va comunque rispettata; dicono che i problemi sono “ben altri”: la mancanza di parità nella carriera, nel lavoro, in famiglia; dicono, poi, che non viene proposta un’alternativa vera: cosa si fa per garantire una generazione di precarie, cosa si propone per finirla con la cooptazione, che è stata assunta a metodo universale di selezione, consentendo nepotismi e favoritismi di ogni sorta? Quale modello alternativo di comportamento proponiamo? Un ritorno al focolare, al perbenismo della famiglia tradizionale? No, certo. Tutte obiezioni legittime e difficilmente contestabili.
Dicono di questa manifestazione che vuole dividere le donne: ma non siamo già forse abbastanza divise, tra chi si adegua a un certo sistema e chi non ne vuole sapere, tra chi lavora e chi no, tra chi fa carriera e chi i figli, tra chi è giovane e chi meno, tra chi guarda la TV e forma le sue opinioni su quello che vede e chi invece ha volontà e possibilità di guardare il mondo e l’Italia con altri occhi?
C’è un universo di giovani- maschi e femmine- che non ha conosciuto un’altra Italia, oltre a quella berlusconiana. Che è cresciuto con i pianti e le sfide di “Amici”, con i gossip di “Studio Aperto”, con le rivalità e gli isterismi del “Grande Fratello”, con la “morale della favola” fornita puntualmente e con grande maestria dall’onnipresente Alfonso Signorini.
E’ una generazione intera- già, perché non sono tutti, ma sono la maggioranza di noi- che in TV ha visto proporre in modo martellante quei valori, quell’immagine del successo, quel modello, mentre, fuori dal teleschermo, vedeva naufragare ogni spazio di successo, di apprendimento, di crescita, al riparo da ingiustizie, nepotismi, corruzione, clientelismo. Un mondo attorno a loro ha lentamente finito per aderire con precisione a quel che vedevano in Tv: la realtà fatta reality, eccetera eccetera.
Un’alternativa vera non c’è stata: debole e contraddittoria quella politica messa in campo dall’opposizione, all’angolo e chiusa in se stessa quella dei sindacati, comunque troppo elitaria e distante quella degli intellettuali, della cultura, della cosiddetta “società civile”.
E allora? Allora, diceva Agrado, celebre trans di un film di Almodovar, che “una è più autentica, quanto più somiglia all'idea che ha sognato di se stessa “.
Una lezione importante, che si fonda su alcuni presupposti: la capacità di sognare, di sognarsi diversi. La forza di perseguire quel sogno, di aderirvi il più possibile, giorno dopo giorno. La fiducia di essere accettate per quello che si è e per quello che si vuole essere.
Visto che rifiuto l’idea che la dignità sia un fatto personale- no, la dignità è di tutti, e per ogni persona che la perde, è la comunità intera a perdere qualcosa- penso che un Paese che non garantisce dignità alle donne non può garantirla a nessuno. E, infatti, questa nostra Italia, non riserva ai miei coetanei nulla di meglio di quel che propone a noi donne.
Agrado ci insegna che la dignità si persegue attraverso l’autenticità, intesa come possibilità di sognare e di batterci per i nostri sogni. Una dignità che non esclude, dunque, ma che unisce fra diversi, e fra diverse: che tiene insieme i milioni di modi di essere donna- e di essere uomo- ma che rivendica la libertà di seguire strade diverse, che sfugge dai modelli proposti o imposti, che si rifiuta di accettare la legittimazione dell’apparenza, della disponibilità e della prostituzione come strade maestre della selezione, della cooptazione, della competizione.
Una dignità nell’immagine, quindi, soprattutto quella della donna. Ma che non è separabile dalla dignità di tutti, calpestata da tutte le difficoltà che si frappongono fra i giovani e le loro aspirazioni, pretendendo da loro- da noi- di essere disposti a tutto, a qualunque prezzo, in cambio di qualsiasi insignificante contentino.
C’è bisogno di riallacciare un filo tra la generazione di donne che ha lottato per conquistare diritti e libertà e la nostra generazione, che ha perso molti di quei diritti e ha scambiato la libertà di allora con la svendita disperata della dignità di oggi. Che sta smettendo di sognare, che sta rinunciando ad assomigliare a quei sogni e per questo si riduce ad un patetico reality.
Per questo, sarò in piazza con mia madre: per un’Italia che invece di abbassarsi al livello della peggiore realtà, insegua ancora i propri sogni migliori. Per un’Italia più autentica.