di Pier Luigi Adami*
L’ennesima, ulteriore esplosione di ieri sera, ha ulteriormente aggravato il già fosco scenario della crisi atomica giapponese. Sono ormai quattro i reattori in gravissima emergenza, e proprio mentre scrivo giungono notizie di incendio dal reattore numero 4. “Non è come a Cernobyl” si affretta ad affermare l’agenzia per la sicurezza atomica giapponese, ma è screditata e giudicata poco attendibile dalla popolazione, come ha riportato l’inviato Pietro Longo della RAI. Vi sono ormai indicazioni molto autorevoli che almeno in un reattore si è giunti alla fusione del nucleo con fortissimo rilascio di radioattività in forma di vapore contaminato. È stata utilizzata acqua di mare nel tentativo di raffreddare i reattori, ma ciò pregiudica ulteriormente gli impianti e gli ormai residui sistemi di sicurezza, e diffonderà la contaminazione nel territorio e nel mare.
Il livello dell’incidente è gravissimo, per ora al 6 (su 7 della scala INES) e ormai si differenzia da Cernobyl per l’assenza del gigante incendio della grafite (l’impianto di Fukushima non è a grafite) che causò la gigantesca nube di fumo radioattivo che si sparse in Europa nel 1986.
Tuttavia, con l’ormai conclamata fusione di almento una parte del nucleo di uno dei reattori, il rilascio di radioattività nell’ambiente è al suo apice. Ma che cos’è esattamente la “fusione del nocciolo”?
Sappiamo che le centrali nucleari generano un’immensa quantità di calore, che, a causa della bassa efficienza termodinamica degli impianti nucleari (30% circa, contro il 54% degli impianti a gas) deve essere smaltito con l’immissione di milioni di tonnellate di acqua ogni giorno, iniettata attraverso pompe potentissime nel circuito di refrigerazione. Il terremoto in Giappone ha fatto saltare il sistema di refrigerazione, e così il nucleo radioattivo, non più raffreddato, è entrato in una fase di grave surriscaldamento. L’intervento immediato delle barre di contenimento per ridurre il processo di fissione nucleare (e non per “spegnere il reattore” come viene impropriamente riportato dalla stampa) non basta a fermare il surriscaldamento, se non interviene immediatamente il sistema di refrigerazione di emergenza, purtroppo anch’esso saltato a Fukushima. Ciò conduce inevitabilmente alla fusione del combustibile nucleare.
Il primo a risentire dell’estremo calore è il rivestimento delle barre di combustibile, in zirconio, metallo molto resistente all’assorbimento neutronico e alla corrosione, pertanto molto usato nella tecnologia nucleare.
Quando la temperatura supera all’incirca i 1220°C inizia l’ossidazione del rivestimento di zirconio, con produzione di idrogeno e ulteriore, forte, rilascio di calore. A quel punto, è proprio il processo ossidativo a contribuire di più al surriscaldamento del nucleo, la cui fissione nucleare era stata rallentata dalle barre di contenimento. Il calore di ossidazione fa salire rapidamente la temperatura, che presto raggiunge i 1870°C, che è quella in cui fonde lo zirconio. Lo zirconio liquefatto, insieme con biossido di uranio e altro materiale radioattivo, precipita nel vaso di contenimento, dove, più in basso, vi è ancora acqua di raffreddamento. Il contatto tra i materiali fusi e l’acqua genera altro vapore e idrogeno, e può causare esplosioni che possono compromettere la tenuta stessa del vaso (vessel) del reattore. Questo fenomeno è reso critico dall’elevatissima pressione che si riscontra nel reattore in questi casi, che può mantenere l’acqua allo stato liquido anche ad alte temperature. A quel punto, comunque, il nucleo del reattore è già gravemente danneggiato e rilascia nell’acqua materiale radioattivo. Si innesca dunque un processo pericoloso, di ossidazione ulteriore, aumento di temperatura e pressione, produzione di idrogeno, emissione di radiazioni, che devono essere compensati con continui rilasci, da parte dei tecnici, di vapore altamente radioattivo nell’ambiente, per ridurre la pressione e il rischio di esplosioni, che possono distruggere il vaso di contenimento del reattore. L’eventuale rottura del vaso di contenimento del reattore, avvenuta a Cernobyl, sventata a Three Mile Island, sino ad ora smentita a Fukushima, produrrebbe una fortissima emissione radioattiva con conseguenze estremamente gravi.
In ogni caso, l’immissione di materiale radioattivo nell’acqua vaporizzata è inevitabile in questi incidenti, così come la contaminazione dell’ambiente della centrale e del territorio. Ogni nuova esplosione, come purtroppo si sta verificando quotidianamente a Fukushima, non fa altro che aggravare la situazione, e possiamo immaginare lo stato di angoscia delle decine di tecnici e di militari costretti ad operare in una simile situazione per cercare almento di ridurre i danni.
Sulla quantità della contaminazione intervengono anche fattori per ora non noti dello stato della centrale di Fukushima: il tipo di combustibile utilizzato (livello di arricchimento) e il suo stato di esaurimento, ossia da quanto tempo le barre di combustibile erano state inserite e sottoposte a fissione nucleare.
Dunque la situazione è di estrema gravita: la nube radioattiva può estendersi su territori densamente popolati e contaminare gli abitanti, il mare e il territorio. Le conseguenze del disastro sono ora incalcolabili. Comparti come l’agricoltura, la pesca – pensiamo al gigantesco rilascio di radionuclidi in mare - il turismo subiranno danni di lunga durata. Ma ora dobbiamo solo sperare che la perversa spirale atomica venga riportata sotto controllo, grazie all’abnegazione di tecnici che ormai stanno rischiando la loro vita per salvare migliaia di altre persone.
*Comitato scientifico Vota SI per fermare il nucleare