di Andrea Sarubbi*
Dopo aver saputo – non da molti organi di stampa, per la verità – della nuova fuga di immigrati dal Cie e dell’ennesima battaglia con le forze dell’ordine, oggi ho preso il motorino e sono corso a Ponte Galeria. L’ultima volta c’ero stato a fine luglio, all’indomani di un episodio simile; la prossima occasione sarà in un giorno anonimo, come questo, senza avvisare nessuno del mio arrivo e senza nessun altro obiettivo che non sia quello di portare lì dentro, in quel carcere a cielo aperto, un pezzetto di Stato. Portarlo a tutti, intendo, perché le forze dell’ordine ne hanno bisogno almeno quanto i detenuti: più ci vado, più me ne convinco, tornando a casa ogni volta con il cuore pesantissimo e la testa piena di pensieri.
A Ponte Galeria, ma forse ve l’ho già raccontato, c’è di tutto. C’è la badante moldava senza passaporto che è stata spedita dentro da un prefetto di terra leghista, mentre magari a Roma, non considerandola un pericolo sociale, avrebbero chiuso un occhio. C’è la lavoratrice cinese che il console si rifiuta di riconoscere, con il pretesto di non sapere da quale parte della Cina provenga, e che pensava di aver toccato il fondo lavorando in un sottoscala, mentre la vita le ha riservato una sorpresa ancora più amara. C’è il delinquente abituale tunisino che ha alle spalle una lunga lista di reati contro la persona, ma che nessuno – in due anni di carcere, poi altri tre, poi non so quanti – si è preso la briga di identificare una volta per tutte e di rimandare a casa, e quindi finisce al Cie appena lo trovano per strada senza documenti, per poi riuscirne 6 mesi dopo e ricominciare tutto da capo. “Qui dentro è uno zoo”, mi ha detto un operatore, prendendomi da parte, e non c’è stato bisogno che aggiungesse nulla, perché l’idea che ti viene, entrandoci, è proprio quella: tra atti di autolesionismo e isterie collettive, anche un sano di mente perderebbe il senno; che sia l’immigrato più pacifico o il poliziotto più ragionevole, tre mesi a Ponte Galeria lo trasformerebbero in una persona peggiore. Nonostante l’umanità di molti funzionari, peraltro piuttosto critici con questa politica dell’immigrazione, il Cie è un luogo diseducativo al massimo, capace di essere nello stesso tempo il contrario dell’accoglienza e il fallimento della sicurezza: in quel clima di alta tensione e di profonda ingiustizia, infatti, le rivolte sono all’ordine del giorno e l’unico obiettivo – dipende dai punti di vista, naturalmente – è quello di fuggire o di impedire la fuga. Quello che era nato per essere un punto di smistamento ragionevolmente rapido – il tempo di capire se una persona fosse identificabile o meno – ora si è trasformato in una prigione vera e propria, per l’inerzia (volontaria, si capisce) di molti consolati e per l’incapacità del nostro governo di affrontare la situazione. Ci vuole un ministro degli Esteri coraggioso, capace di prendere di petto i Paesi non collaborativi e di minacciarli con le armi che la diplomazia gli mette a disposizione. Poi ci vuole un ministro dell’Interno meno ideologico, che concentri gli sforzi dei prefetti sulle situazioni di reale pericolo sociale, che non alimenti emergenze per motivi elettorali e che ogni tanto – anche a tempo perso – vada a mettere piede in un Cie: se non vuol farlo per gli immigrati, lo faccia almeno per quei ragazzi in divisa che manda lì, per 1300 euro al mese, a prendere pietre in testa e a restituire in cambio manganellate.
*tratto da http://www.andreasarubbi.it