Articolo 21 - IDEE IN MOVIMENTO
Shirin Ebadi: "La primavera arriverà solo quando le donne musulmane avranno gli stessi diritti degli uomini"
di Marco Curatolo*
Non avrebbe potuto esserci ospite migliore, a Roma, per celebrare la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: Shirin Ebadi, iraniana, premio Nobel per la pace nel 2003, prima donna musulmana ad ottenere tale riconoscimento, è stata invitata in Italia da Telefono Rosa. Partecipa alla presentazione del libro di Marisa Paolucci “Tre donne una sfida”. Una delle tre protagoniste del volume è lei, le altre due sono Fatima Ahmed (sudanese, prima donna eletta in un parlamento africano) e Malalai Joya (afgana, la più giovane delle tre, parlamentare dal 2003 al 2007 e capace di denunciare i talebani e i signori della guerra che le sedevano accanto in Parlamento). Tre storie di donne straordinarie, che non si conoscono e non si frequentano, tutte e tre musulmane, accomunate dal coraggio con cui hanno saputo lottare contro la discriminazione di genere, ma anche per la democrazia e i diritti umani di tutti i loro connazionali, uomini e donne.
Shirin Ebadi si presenta alla sala conferenze della Stampa Estera in un elegante tailleur giallo, ma con il viso affaticato da un viaggio movimentato: è da poco sbarcata da un volo che l’ha portata a Roma dalla Repubblica del Congo via Parigi. Nel tragitto, il suo bagaglio è andato perduto (“Ma l’abbiamo recuperato”, mi dicono con orgoglio le donne di Telefono Rosa). L’attendono una serata di gala di cui sarà ospite d’onore, e un incontro al teatro Quirino con 900 studenti delle scuole romane. Eppure, nonostante la stanchezza, si sottopone docilmente alla trafila delle interviste. C’è anche un video-appello per Amnesty International da registrare: è in favore di Nasrin Sotoudeh, avvocato come la Ebadi, sua collega ed amica, rinchiusa nel carcere di Evin, a Teheran, dal settembre 2010 e condannata a 6 anni di prigione (sentenza definitiva) per la sua attività in difesa dei diritti umani e di numerosi prigionieri politici. “Dovunque vado – dice Ebadi – non perdo occasione per raccontare quello che sta accadendo al mio popolo, e per ricordare i nostri prigionieri di coscienza”.
È una Shirin Ebadi a tutto campo, quella che incontriamo. Rivendica la forza e il coraggio delle donne musulmane: “Purtroppo, in occidente, molti media ci presentano ancora come se stessimo nelle nostre cucine e non facessimo altro. È vero, c’è una situazione discriminatoria, ma le donne musulmane non l’accettano, al contrario la combattono. In Iran, dopo le elezioni del 2009, avete visto tutti che le donne erano in prima fila per strada, e alcune sono anche state uccise. In Egitto, dopo che era stato cacciato il Mubarak, quando i militari hanno preso il controllo della situazione, sono state ancora le donne a protestare in piazza Tahir, e perciò i militari, per dimostrare che erano delle poco di buono, hanno imposto loro il test di accertamento della verginità. Nello Yemen, una delle persone che più ha combattuto contro il regime è una donna.”
Ha qualcosa da dire anche sui fatti che hanno cambiato il corso della storia in vari paesi del Nord Africa e del Medio Oriente: “La stampa occidentale, ha parlato di ‘primavera araba’. Secondo me è ancora presto per definirla una primavera. Non basta che un dittatore vada via, occorre che al suo posto subentri la democrazia. E, in democrazia, tutti hanno pari diritti, quindi le donne non vengono discriminate. Perciò la primavera arriverà davvero solo quando le donne musulmane avranno gli stessi diritti degli uomini.” E, aggiunge, le donne musulmane stanno lottando per questo, quindi: “State sicuri che la primavera arriverà.”
Ebadi difende i diritti delle donne, ma senza dogmatismi. Quanto è importante che le donne siano maggiormente presenti nei governi del mondo? “È chiaro che quando le donne al potere sono in minoranza, come in Iran, è più facile che vengano approvate leggi contro le donne, o volute solo dagli uomini. Ma vorrei anche dire che non è importante il genere delle persone, bensì quello che pensano. Ho conosciuto molti uomini che hanno grande rispetto per i diritti delle donne. Per esempio, nel mio paese alle donne è proibito riunirsi. Quando lo fanno, vengono accusate di attentare alla sicurezza nazionale. Ma con loro spesso ci sono anche uomini, e tra i prigionieri politici ci sono uomini che sono stati arrestati perché partecipavano a queste riunioni tra donne. Al tempo stesso conosciamo molte donne che per difendere il loro credo politico sembrano persino dimenticarsi di essere donne. Quindi secondo me non conta se al potere ci sono uomini o donne, l’importante è che gli uni e le altre credano nella parità dei diritti.”
Si passa quindi a parlare della situazione attuale del suo paese: delle speranze che il popolo iraniano riprenda presto la strada per la libertà e per la democrazia che era cominciata con le massicce proteste seguite alle elezioni presidenziali del 2009, soffocate dalla repressione. E anche delle preoccupazioni internazionali concernenti il programma nucleare della Repubblica Islamica, e della possibile opzione militare: un attacco armato contro l’Iran è parso, nelle settimane scorse, una possibilità concreta e forse imminente. Shirin Ebadi non lascia spazio a facili illusioni (“Finora il regime ci ha fatto capire che non ha la minima intenzione di ascoltare la voce della gente”) e tuttavia usa parole forti e chiare contro l’eventualità di una guerra contro l’Iran: “Il popolo è contro il regime, ma naturalmente non vuole un intervento militare straniero. Un attacco dall’esterno autorizzerebbe il governo a mettere ancora più pressione su coloro che lottano per la libertà. Inoltre il popolo iraniano, messo nella necessità di difendere la sua patria, dimenticherebbe i problemi legati all’esistenza del regime, anzi il sentimento nazionalistico farebbe sì che lotterebbe insieme e accanto ad esso. È quello che è già accaduto durante la guerra con l’Iraq, e nel frattempo le autorità facevano giustiziare 14mila oppositori.”
Su altre forme di pressione internazionale, come le sanzioni, Ebadi distingue: “Se le sanzioni riguardano la tecnologia e gli apparati militari del regime, sono utili e non danneggiano il popolo. Se riguardano la salute pubblica o i prodotti alimentari, creano problemi alla gente. Le migliori sanzioni sono quelle che colpiscono direttamente i responsabili delle violazioni e degli abusi. Da questo punto di vista ci sono stati progressi significativi: recentemente l’Unione europea ha sanzionato alcune decine di individui che in Iran si sono resi responsabili di crimini contro i diritti umani (esponenti della magistratura, della Guardia Rivoluzionaria, della polizia, membri del governo, n.d.r.), impedendo loro di viaggiare liberamente e ponendo sotto sequestro i loro beni. È stato un passo importante.”
Lo sguardo si allarga quindi alla Siria, e al bagno di sangue con cui il regime di Assad, sostenuto da quello iraniano, sta rispondendo alle proteste della piazza. “Bashar Al-Assad è un dittatore e sta uccidendo il suo popolo, addirittura portando i carri armati nelle strade. La lega araba gli ha chiesto di andarsene. C’è un solo governo che ancora lo appoggia: quello dell’Iran. Da Teheran arrivano in Siria armi, denaro, soldati per combattere contro il popolo siriano. In Siria la gente, per strada, dà fuoco alla bandiera iraniana. Del resto Assad è sempre stato una marionetta del regime iraniano, e Teheran non vuole perderlo. Mi scuso personalmente con il popolo siriano per questo comportamento del regime del mio paese, che naturalmente il popolo iraniano non condivide.”
Dallo scorso mese di agosto è pienamente operativo il dottor Ahmed Shaheed, designato dallo Human Rights Council delle Nazioni Unite “Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica dell’Iran”. Un mandato importante, richiesto e voluto con forza dagli ambienti della dissidenza iraniana e dagli attivisti per i diritti umani. Quali speranze si legano al lavoro di Shaheed? Il governo di Teheran lo autorizzerà ad entrare in Iran per poter svolgere sul campo, di persona, il suo lavoro? “Già il semplice fatto che questo mandato esista è molto importante e positivo”, sottolinea Ebadi. “Il dottor Shaheed ha un background molto importante, in materia, e ha preparato una relazione molto accurata per l'assemblea delle Nazioni Unite, elencando tutte le violazioni e dicendo con chiarezza non solo che la situazione è peggiorata, ma anche che è peggiore di quanto si aspettava. Il regime per ora non gli ha dato il permesso di entrare nel paese, ma le testimonianze e i resoconti che ha potuto raccogliere dagli attivisti gli hanno permesso comunque di avere un quadro molto dettagliato della situazione.”
Shirin Ebadi ha presentato l’estate scorsa un dossier sulla situazione dei suoi colleghi in Iran: decine di avvocati come Nasrin Sotoudeh che, per il semplice fatto di avere difeso i prigionieri politici e di avere svolto il loro lavoro in difesa dei diritti umani, sono stati vittime di persecuzioni, arresti, condanne. Molti di loro sono stati costretti all’esilio, alcuni sono stati suoi collaboratori al Defenders of Human Rights Center, come Abdolfattah Soltani (in carcere a Evin da mesi). “Almeno 44 avvocati hanno avuto procedimenti penali a loro carico e molti di loro sono ancora in prigione. Ma la cosa più grave è che tutto accade senza che l’ordine degli avvocati dica una sola parola in difesa di questi suoi membri: è la prova che anche l’ordine professionale ha perso ormai la sua indipendenza.”
Si finisce col parlare di lei, della sua storia. Della paura che, inevitabilmente, l’accompagna (“Ho imparato a conviverci”), della forza che le dà la fede (“sono musulmana credente”). Come ha cambiato la sua vita il Premio Nobel? “Mi ha dato la possibilità di farmi ascoltare e di raccontare a molte persone quello che accade nel mio paese. Certo, all’interno dell’Iran mi ha creato molti problemi, in quanto le autorità sono convinte che io abbia ricevuto il premio perché voglio rovesciare il regime. Ma io non ho ambizioni politiche, io sono solo un difensore dei diritti umani.”
La situazione personale di Shirin Ebadi è precipitata dopo le elezioni del 2009. “Il mio ufficio è stato attaccato – racconta - la mia organizzazione è stata chiusa, mio marito e mia sorella sono stati arrestati, e sono stati rilasciati su cauzione e in attesa di giudizio, ma è stato tolto loro il passaporto e non possono viaggiare e lasciare il paese. In Iran tutti i miei beni sono stati sequestrati e venduti all’asta dal regime, con la scusa che non avevo pagato le tasse sul premio Nobel. Sono stata minacciata: hanno detto a mio marito e mia sorella che, dovunque fossi stata, mi avrebbero trovato e ucciso. Questo tuttavia non mi ha cambiato. Amo la mia famiglia, ma amo anche di più la giustizia. Credo in quello che faccio.”
Ha rimpianti? Ha mai la sensazione che tutto questo sia inutile? È un pensiero che Ebadi respinge con forza. “I risultati di questi anni di lavoro sono importanti. I progressi nel campo dei diritti umani ci sono stati. Oggi, in Iran, il popolo ha una percezione chiara di cosa siano i diritti umani, li vuole, li chiede, li pretende.”
Nel giugno del 2009 Shirin Ebadi era partita dall’Iran per partecipare a una conferenza. Doveva essere un viaggio di pochi giorni, ma non è più potuta rientrare in patria. “Siccome non potevano arrestare me – dice – hanno arrestato i miei cari. Ora viaggio molto, parlo con tanti gruppi diversi di persone. Un giorno ho incontrato un gruppo di ragazzi ai quali ho raccontato che cosa voglia dire essere adolescenti in Iran, e uno di loro mi ha chiesto: “Non ti mancano mai la tua casa, la tua famiglia?” “Certo che mi mancano – ho risposto – ma io ho dei doveri da compiere.” Allora lui mi ha insegnato una cosa: “Fai un fiore di carta, scrivici sopra i nomi delle persone che ti mancano, e gettalo nell’acqua di un fiume. In qualche modo arriverà da loro.”
Gli occhi di Shirin Ebadi luccicano, si riempiono di lacrime, tra le sue mani spunta un pezzo di carta. “Ecco, questo è il mio fiore”.
* vicepresidente di Iran Human Rights Italia Onlus
Shirin Ebadi si presenta alla sala conferenze della Stampa Estera in un elegante tailleur giallo, ma con il viso affaticato da un viaggio movimentato: è da poco sbarcata da un volo che l’ha portata a Roma dalla Repubblica del Congo via Parigi. Nel tragitto, il suo bagaglio è andato perduto (“Ma l’abbiamo recuperato”, mi dicono con orgoglio le donne di Telefono Rosa). L’attendono una serata di gala di cui sarà ospite d’onore, e un incontro al teatro Quirino con 900 studenti delle scuole romane. Eppure, nonostante la stanchezza, si sottopone docilmente alla trafila delle interviste. C’è anche un video-appello per Amnesty International da registrare: è in favore di Nasrin Sotoudeh, avvocato come la Ebadi, sua collega ed amica, rinchiusa nel carcere di Evin, a Teheran, dal settembre 2010 e condannata a 6 anni di prigione (sentenza definitiva) per la sua attività in difesa dei diritti umani e di numerosi prigionieri politici. “Dovunque vado – dice Ebadi – non perdo occasione per raccontare quello che sta accadendo al mio popolo, e per ricordare i nostri prigionieri di coscienza”.
È una Shirin Ebadi a tutto campo, quella che incontriamo. Rivendica la forza e il coraggio delle donne musulmane: “Purtroppo, in occidente, molti media ci presentano ancora come se stessimo nelle nostre cucine e non facessimo altro. È vero, c’è una situazione discriminatoria, ma le donne musulmane non l’accettano, al contrario la combattono. In Iran, dopo le elezioni del 2009, avete visto tutti che le donne erano in prima fila per strada, e alcune sono anche state uccise. In Egitto, dopo che era stato cacciato il Mubarak, quando i militari hanno preso il controllo della situazione, sono state ancora le donne a protestare in piazza Tahir, e perciò i militari, per dimostrare che erano delle poco di buono, hanno imposto loro il test di accertamento della verginità. Nello Yemen, una delle persone che più ha combattuto contro il regime è una donna.”
Ha qualcosa da dire anche sui fatti che hanno cambiato il corso della storia in vari paesi del Nord Africa e del Medio Oriente: “La stampa occidentale, ha parlato di ‘primavera araba’. Secondo me è ancora presto per definirla una primavera. Non basta che un dittatore vada via, occorre che al suo posto subentri la democrazia. E, in democrazia, tutti hanno pari diritti, quindi le donne non vengono discriminate. Perciò la primavera arriverà davvero solo quando le donne musulmane avranno gli stessi diritti degli uomini.” E, aggiunge, le donne musulmane stanno lottando per questo, quindi: “State sicuri che la primavera arriverà.”
Ebadi difende i diritti delle donne, ma senza dogmatismi. Quanto è importante che le donne siano maggiormente presenti nei governi del mondo? “È chiaro che quando le donne al potere sono in minoranza, come in Iran, è più facile che vengano approvate leggi contro le donne, o volute solo dagli uomini. Ma vorrei anche dire che non è importante il genere delle persone, bensì quello che pensano. Ho conosciuto molti uomini che hanno grande rispetto per i diritti delle donne. Per esempio, nel mio paese alle donne è proibito riunirsi. Quando lo fanno, vengono accusate di attentare alla sicurezza nazionale. Ma con loro spesso ci sono anche uomini, e tra i prigionieri politici ci sono uomini che sono stati arrestati perché partecipavano a queste riunioni tra donne. Al tempo stesso conosciamo molte donne che per difendere il loro credo politico sembrano persino dimenticarsi di essere donne. Quindi secondo me non conta se al potere ci sono uomini o donne, l’importante è che gli uni e le altre credano nella parità dei diritti.”
Si passa quindi a parlare della situazione attuale del suo paese: delle speranze che il popolo iraniano riprenda presto la strada per la libertà e per la democrazia che era cominciata con le massicce proteste seguite alle elezioni presidenziali del 2009, soffocate dalla repressione. E anche delle preoccupazioni internazionali concernenti il programma nucleare della Repubblica Islamica, e della possibile opzione militare: un attacco armato contro l’Iran è parso, nelle settimane scorse, una possibilità concreta e forse imminente. Shirin Ebadi non lascia spazio a facili illusioni (“Finora il regime ci ha fatto capire che non ha la minima intenzione di ascoltare la voce della gente”) e tuttavia usa parole forti e chiare contro l’eventualità di una guerra contro l’Iran: “Il popolo è contro il regime, ma naturalmente non vuole un intervento militare straniero. Un attacco dall’esterno autorizzerebbe il governo a mettere ancora più pressione su coloro che lottano per la libertà. Inoltre il popolo iraniano, messo nella necessità di difendere la sua patria, dimenticherebbe i problemi legati all’esistenza del regime, anzi il sentimento nazionalistico farebbe sì che lotterebbe insieme e accanto ad esso. È quello che è già accaduto durante la guerra con l’Iraq, e nel frattempo le autorità facevano giustiziare 14mila oppositori.”
Su altre forme di pressione internazionale, come le sanzioni, Ebadi distingue: “Se le sanzioni riguardano la tecnologia e gli apparati militari del regime, sono utili e non danneggiano il popolo. Se riguardano la salute pubblica o i prodotti alimentari, creano problemi alla gente. Le migliori sanzioni sono quelle che colpiscono direttamente i responsabili delle violazioni e degli abusi. Da questo punto di vista ci sono stati progressi significativi: recentemente l’Unione europea ha sanzionato alcune decine di individui che in Iran si sono resi responsabili di crimini contro i diritti umani (esponenti della magistratura, della Guardia Rivoluzionaria, della polizia, membri del governo, n.d.r.), impedendo loro di viaggiare liberamente e ponendo sotto sequestro i loro beni. È stato un passo importante.”
Lo sguardo si allarga quindi alla Siria, e al bagno di sangue con cui il regime di Assad, sostenuto da quello iraniano, sta rispondendo alle proteste della piazza. “Bashar Al-Assad è un dittatore e sta uccidendo il suo popolo, addirittura portando i carri armati nelle strade. La lega araba gli ha chiesto di andarsene. C’è un solo governo che ancora lo appoggia: quello dell’Iran. Da Teheran arrivano in Siria armi, denaro, soldati per combattere contro il popolo siriano. In Siria la gente, per strada, dà fuoco alla bandiera iraniana. Del resto Assad è sempre stato una marionetta del regime iraniano, e Teheran non vuole perderlo. Mi scuso personalmente con il popolo siriano per questo comportamento del regime del mio paese, che naturalmente il popolo iraniano non condivide.”
Dallo scorso mese di agosto è pienamente operativo il dottor Ahmed Shaheed, designato dallo Human Rights Council delle Nazioni Unite “Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica dell’Iran”. Un mandato importante, richiesto e voluto con forza dagli ambienti della dissidenza iraniana e dagli attivisti per i diritti umani. Quali speranze si legano al lavoro di Shaheed? Il governo di Teheran lo autorizzerà ad entrare in Iran per poter svolgere sul campo, di persona, il suo lavoro? “Già il semplice fatto che questo mandato esista è molto importante e positivo”, sottolinea Ebadi. “Il dottor Shaheed ha un background molto importante, in materia, e ha preparato una relazione molto accurata per l'assemblea delle Nazioni Unite, elencando tutte le violazioni e dicendo con chiarezza non solo che la situazione è peggiorata, ma anche che è peggiore di quanto si aspettava. Il regime per ora non gli ha dato il permesso di entrare nel paese, ma le testimonianze e i resoconti che ha potuto raccogliere dagli attivisti gli hanno permesso comunque di avere un quadro molto dettagliato della situazione.”
Shirin Ebadi ha presentato l’estate scorsa un dossier sulla situazione dei suoi colleghi in Iran: decine di avvocati come Nasrin Sotoudeh che, per il semplice fatto di avere difeso i prigionieri politici e di avere svolto il loro lavoro in difesa dei diritti umani, sono stati vittime di persecuzioni, arresti, condanne. Molti di loro sono stati costretti all’esilio, alcuni sono stati suoi collaboratori al Defenders of Human Rights Center, come Abdolfattah Soltani (in carcere a Evin da mesi). “Almeno 44 avvocati hanno avuto procedimenti penali a loro carico e molti di loro sono ancora in prigione. Ma la cosa più grave è che tutto accade senza che l’ordine degli avvocati dica una sola parola in difesa di questi suoi membri: è la prova che anche l’ordine professionale ha perso ormai la sua indipendenza.”
Si finisce col parlare di lei, della sua storia. Della paura che, inevitabilmente, l’accompagna (“Ho imparato a conviverci”), della forza che le dà la fede (“sono musulmana credente”). Come ha cambiato la sua vita il Premio Nobel? “Mi ha dato la possibilità di farmi ascoltare e di raccontare a molte persone quello che accade nel mio paese. Certo, all’interno dell’Iran mi ha creato molti problemi, in quanto le autorità sono convinte che io abbia ricevuto il premio perché voglio rovesciare il regime. Ma io non ho ambizioni politiche, io sono solo un difensore dei diritti umani.”
La situazione personale di Shirin Ebadi è precipitata dopo le elezioni del 2009. “Il mio ufficio è stato attaccato – racconta - la mia organizzazione è stata chiusa, mio marito e mia sorella sono stati arrestati, e sono stati rilasciati su cauzione e in attesa di giudizio, ma è stato tolto loro il passaporto e non possono viaggiare e lasciare il paese. In Iran tutti i miei beni sono stati sequestrati e venduti all’asta dal regime, con la scusa che non avevo pagato le tasse sul premio Nobel. Sono stata minacciata: hanno detto a mio marito e mia sorella che, dovunque fossi stata, mi avrebbero trovato e ucciso. Questo tuttavia non mi ha cambiato. Amo la mia famiglia, ma amo anche di più la giustizia. Credo in quello che faccio.”
Ha rimpianti? Ha mai la sensazione che tutto questo sia inutile? È un pensiero che Ebadi respinge con forza. “I risultati di questi anni di lavoro sono importanti. I progressi nel campo dei diritti umani ci sono stati. Oggi, in Iran, il popolo ha una percezione chiara di cosa siano i diritti umani, li vuole, li chiede, li pretende.”
Nel giugno del 2009 Shirin Ebadi era partita dall’Iran per partecipare a una conferenza. Doveva essere un viaggio di pochi giorni, ma non è più potuta rientrare in patria. “Siccome non potevano arrestare me – dice – hanno arrestato i miei cari. Ora viaggio molto, parlo con tanti gruppi diversi di persone. Un giorno ho incontrato un gruppo di ragazzi ai quali ho raccontato che cosa voglia dire essere adolescenti in Iran, e uno di loro mi ha chiesto: “Non ti mancano mai la tua casa, la tua famiglia?” “Certo che mi mancano – ho risposto – ma io ho dei doveri da compiere.” Allora lui mi ha insegnato una cosa: “Fai un fiore di carta, scrivici sopra i nomi delle persone che ti mancano, e gettalo nell’acqua di un fiume. In qualche modo arriverà da loro.”
Gli occhi di Shirin Ebadi luccicano, si riempiono di lacrime, tra le sue mani spunta un pezzo di carta. “Ecco, questo è il mio fiore”.
* vicepresidente di Iran Human Rights Italia Onlus
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