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Articolo 21 - Editoriali
La giustizia a cena
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di Federico Orlando

Dedico questo ricordo della mia infanzia al giudice Mazzella, che il 6 ottobre dovrà giudicare la costituzionalità del lodo Alfano, quello che mette Berlusconi a riparo da ogni processo.
A chi lo ha criticato per aver ricevuto a cena, in casa sua, il premier, Alfano e altri esponenti della maggioranza, Mazzella ha risposto alla napoletana: «In casa mia invito chi voglio e parlo di quello che voglio». (Quasi una moda: «A palazzo Grazioli ricevo chi voglio e faccio quel che voglio», «A Villa Certosa ricevo chi voglio e dico quel che voglio», ecc.). Dunque, il ricordo della mia infanzia è quello di igieniche e pallosissime passeggiate pomeridiane, cui nostro padre costringeva i figli, nel breve intervallo tra il pranzo e le lunghe ore di studio. La strada preferita era sempre la stessa, dal centro del paese alla stazione, e i frequentatori quasi degli abbonati. Un giorno domandai a mio padre chi fosse quel giovane signore solitario, alto, biancastro, un po’ spettrale (una specie di Quagliariello) che incrociavamo tutti i giorni sempre al lato opposto, a cui mio padre rivolgeva un rispettoso saluto col cappello, ricambiato da un leggero inchino: sempre solo, sempre muto. «È il procuratore del re – rispose mio padre – non può parlare e conoscere nessuno, perché la giustizia non può avere amicizie o conoscenze ». Settant’anni dopo, ne ricordo il nome, De Sanctis, come quello di un asceta. Immagino che a Mazzella il mio ricordo provochi risate napoletane, magari compassionevoli.
Sarebbe giusto: tra me liberale, che considero le istituzioni come templi religiosi, e lui socialista, l’abisso è immane, incolmabile da 150 anni.
Per questa idea religiosa delle istituzioni ho quasi bisticciato, anni fa, col mio carissimo amico Marco Pannella, che, più informato e scottato e disincantato di me, da un certo giorno si mise a parlare della corte costituzionale come della “cupola” della mafia partitocratrica.
Credo ne sia ancora convinto e forse finirò per chiedergli scusa.
Si dà il caso infatti che Mazzella, ministro della finzione pubblica nel primo governo Berlusconi (1994), eletto giudice costituzionale dal parlamento in quota destra, pur guardandoci da quattro anni dall’alto del palazzo della Consulta, che sta anch’esso sul colle più alto, replichi a chi trova inopportuno ricevere a casa Berlusconi e Alfano: «Non credo che io, da individuo privato, debba dar conto delle cene che faccio». Ma certo, né lui né alcun altro, cenare è un diritto costituzionale oltre che, direbbero i preti, naturale. Ma, appunto, da individui privati. Però un membro della corte costituzionale non è più un individuo privato se fra tre mesi dovrà giudicare una norma essenziale per un suo commensale; se estende l’invito all’autore formale della norma, il ministro Alfano, e ai capi delle commissioni affari costituzionali di camera e senato; se tra un piatto alle vongole e una spigola, discutano di lodo Alfano (come è possibile, ma non provabile) insieme al progetto di spiantare la giustizia: a cominciare dagli odiati pubblici ministeri e sostituirli con “avvocati dell’accusa”, vendetta che unirebbe il craxiano Mazzella e il berlusconiano Berlusconi.
Una tale disinvoltura napoletana del giudice socialista comporterebbe la ricusazione da parte degli avvocati che nella causa del 6 ottobre sosterranno la tesi del pubblico ministero sull’incostituzionalità del lodo Alfano. Ma né la ricusazione (diritto dell’avvocato) né l’astensione dal processo (diritto del giudice chiacchierato) sono consentiti a Palazzo della consulta. Così vuole una norma integrativa dei giudizi davanti alla Corte.
Il peggio è – e qui il mio amico Marco Pannella sembra aver proprio ragione, con mia stizza e rammarico – che il vizietto del pranzare o parlare con chi si vuole ma anche con chi non si dovrebbe, abbia antiche radici nel palazzo della Consulta: da quando, diciamo, nel 1994, l’allora presidente della Corte Casavola, del quale leggo gli illuminanti articoli etico-giuridici sul Messaggero e sul Mattino, ricevette per un’ora e mezza in udienza a quattr’occhi il presidente Berlusconi, non appena fissata l’udienza per giudicare l’incostituzionalità della legge Mammì: quella sul monopolio privato delle tre reti, che non ebbe il plauso della Corte.
Io so, per via delle discussioni del sabato ad Arcore, quali patemi d’animo suscitava l’attesa di quella convalida («Anche stavolta la Mammì non è al sicuro, e io passerò in brutto natale», autunno 1993). So per certo che, mentre i giudici della Corte erano irritati col loro presidente per l’inopportunità dell’udienza a quattr’occhi, anche il presidente della Cassazione passava da pellegrino a palazzo Chigi. Istituzioni e politica si confondono sempre più in Italia, via via che cresce il mito napoletano del pomodoro e della mozzarella, che stanno bene insieme nella pizza Marghertita.
Vorrei aggiungere che nel supervolume da mille pagine, Commento all’articolo 21, del presidente dei costituzionalisti italiani, Alessandro Pace, si legge, in nota 69 del capitolo VII, che l’incontro Casavola- Berlusconi del ’94 fu ancor più ravvicinato dell’incontro Mazzella- Berlusconi del 2009: udienza pubblica in aula già fissata per novembre, udienza privata nello studio del presidente a settembre. Io mi domando quanto tempo sprechino per gli affari privati del premier supreme autorità, addette alla manutenzione e al miglioramento delle fondamenta dello stato. Il premier sarà ricco di suo, ma quanto ci costa, specie in quella moneta i cui supremi difensori, nella repubblica bicipite, dovrebbero stare al Quirinale e in Vaticano?
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