di Nicola Zingaretti
In tutta Europa lo spettacolo culturale vive sulla base di finanziamenti pubblici superiori all’Italia: cosa giusta e normale, perché significa investire sulla crescita civile, sociale ed economica di una società avanzata. Qui da noi, invece, il taglio indiscriminato del Fondo Unico per lo Spettacolo mette in ginocchio un settore che già soffre una cronica insufficienza di risorse.
Quello che oggi sta avvenendo è l’umiliazione di una generazione di talenti. La sordità del governo al grido di allarme che si sta sollevando in questi giorni è significativa. Le prime vittime dei tagli sono infatti i ragazzi e le ragazze delle nostre accademie, ballerini, attori, cantanti, musicisti, registi, tecnici: un’intera generazione che bisognerebbe provare ad ascoltare di più. Se lo facessimo, capiremmo che la quantità e la qualità delle risorse pubbliche investite nella cultura non sono la partita di scambio di un gioco politico: per questi ragazzi e per queste ragazze sono la dignità del proprio lavoro, la libertà di raggiungere i propri obiettivi, il diritto ad una formazione competitiva con quella degli altri paesi europei. Tagliare il FUS significa mettere in ginocchio le scuole di formazione e rendere sempre più difficile l’accesso ad una professione portata avanti in molti casi a prezzo di una dura gavetta, di passione e di sacrifici.
Perché tagliare? Vedo, dietro questa scelta, un’idea molto chiara: l’idea che l’industria dello spettacolo non abbia più bisogno del talento e, quindi, che la strada per il successo non passi più attraverso lo studio e la ricerca, ma per vie differenti. Un’idea antimeritocratica. Penso soprattutto alla televisione, al ruolo che ha svolto fino a pochi anni fa come tramite fra una cultura alta e una cultura popolare. Ad una Tv che non è stata solo strumento di promozione culturale, ma trampolino di lancio per tanti giovani artisti oggi famosi che hanno trovato spazio per sperimentare nelle trasmissioni di intrattenimento leggero e perfino nel varietà di prima serata. Non lo dico per nostalgia, ma per indicare un modello. Un terreno di battaglia culturale. Oggi, lo spazio televisivo è purtroppo sempre più occupato dalla moltiplicazione dei reality: uno spettacolo che non premia il talento, ma l’assenza di talento. Spesso la mediocrità. I reality sono oggi l’altra faccia dei tagli alla cultura. Una classe dirigente seria dovrebbe impegnarsi perché quello spazio tornasse ad essere occupato liberamente dai mille talenti del nuovo secolo che stiamo vivendo. Penso che non sia solo possibile, ma necessario. Un paese che umilia i propri talenti è un paese che nega il proprio futuro.