di Carlo Alberto Romano*
La situazione carceraria bresciana forse non è la peggiore d’Italia; ma ciò non può certo essere consolatorio. Certamente è fra le peggiori della Lombardia. Se Verziano, terminato e messo in uso negli anni ’80, presenta una situazione non drammatica, accanimenti di Giove Pluvio a parte, Canton Mombello è letteralmente invivibile. Il sovraffollamento è una costante nazionale da innumerevoli anni, ma ad aggravare la situazione è stata dagli anni ’70 la presenza di detenuti tossicodipendenti (con le loro esigenze di cura, che mal si conciliano con il sistema carcerario) e dagli anni ’90 la massiccia presenza di stranieri, che come è noto, nel nostro territorio e quindi nei nostri Istituti penali, sono presenti in misura più ampia rispetto al resto d’Italia e della Regione. Alla fine del 2008 gli stranieri presenti nelle carceri nazionali erano 21.562 (un terzo circa) contro una situazione locale che ha visto e vede presenze di stranieri in misura di tre quarti o addirittura quattro quinti della popolazione presente a Canton Mombello, Casa Circondariale e quindi con elevata presenza di persone non condannate in via definitiva..
La precisazione appare opportuna, infatti se affiniamo leggermente l’analisi delle posizioni giuridiche, notiamo che mentre la presenza complessiva di detenuti definitivi al 31 dicembre 2008 era di 28.000 persone su 58.000 (vale a dire poco meno della metà), alla stessa data gli stranieri reclusi e definitivi erano circa 8200 su 21 562 (vale a dire un po’ più di un terzo). L’uso della custodia cautelare continua ad essere differenziato e discriminatorio nel nostro paese, in funzione della cittadinanza. Non vi è dubbio.
Malgrado la minor diffusione di eroina rispetto agli anni ’80, anche la presenza di tossicodipendenti è ancora elevata: si parla di oltre un terzo della popolazione a livello nazionale e di circa un 40 per cento a livello locale. Anche in questo caso la nostra particolare realtà non sembra imporsi come situazione migliore rispetto al territorio nazionale. Anzi.
Infine rileviamo che al 31 dicembre 2008 i detenuti che svolgono attività lavorativa erano 13.990 (ridicolmente pochi se consideriamo il numero di detenuti complessivi, meno di un quarto, ma anche se consideriamo i soli definitivi, meno della metà). Il lavoro è un aspetto estremamente fondamentale del percorso rieducativo di ogni persona condannata, ma non riusciamo in alcun modo ad averne adeguata disponibilità nelle carceri del nostro Paese. Le uniche proposte concrete sono arrivate nel tempo dalle Cooperative sociali, oggi purtroppo fra le imprese più impegnate nel confronto con la congiuntura economica, a causa della loro peculiare strutturazione solidaristica e della debilità tradizionale della forza lavoro utilizzata.
I dati statistici, nella loro fredda obiettività, dimostrano incontrovertibilmente tanto la gravità del problema carcerario, quanto il suo stretto legame con la questione sociale, vale a dire l’accentuazione dei meccanismi di estromissione e di penalizzazione delle marginalità che ha contraddistinto la fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale.
Povertà ed esclusione sociale non giustificano il delitto, ma ci aiutano a capire i numeri delle nostre galere, sempre meno strumenti di rieducazione e sempre più contenitori di marginalità .
La realtà carceraria è divenuta sempre più grave e ha da tempo superato il livello di guardia. Come dimostrano le numerose morti in carcere, dovute ad una inidonea assistenza e malasanità, i troppo tanti suicidi e le migliaia di episodi di autolesionismo. La sanità penitenziaria, o il suo residuo simulacro, oggetto di costanti, ripetuti e crescenti tagli nelle ultime leggi finanziarie, attualmente vive una situazione di grande difficoltà; la speranza è che il recente passaggio al SSN e, nella nostra Regione, con felice intuizione, alle Az Osp possa ricondurla ad una funzione di naturale supporto assistenziale ( e non emergenziale come è oggi) per le persone detenute, le cui sofferenze non dovrebbero essere altro che la privazione della libertà, Costituzionalmente sancita; certamente non più quelle pene corporali di medievale memoria ma attuale consistenza, che il Beccaria insegnò ad allontanare dal patrimonio giuridico degli Stati più civili e moderni .
La situazione è poi resa più grave dalla carente applicazione di leggi, che potrebbero determinare se non la soluzione di alcuni dei problemi certo una migliore vivibilità e garantire maggiori diritti. Basti pensare:
al Regolamento penitenziario, (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230),ancora non applicato in molte sue parti;
alla Legge 8 marzo 2001, n. 40, che consente la scarcerazione delle detenute madri e dei bambini in carcere, ma che non ha fatto diminuire di fatto il numero di bambini e di madri detenute;
alla Legge 22 giugno 2000, n. 193, “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti” (cd. “Smuraglia”) che ha introdotto incentivi per i datori di lavoro che vogliano assumere lavoratori detenuti, scarsamente utilizzata ed ai più ancora sconosciuta;
alla ridicola gestione della Legge 31 luglio 2006, n. 241 (cd. “indulto”) che ha liberato oltre ventimila detenuti senza che a ciò conseguisse un adeguato concerto progettuale per il loro reinserimento sociale; risultato: in due anni siamo tornati agli stessi numeri da illegalità carceraria che avevano suggerito, ma direi imposto, la necessità del provvedimento indulgenziale, senza però avere più a disposizione tale strumento, la cui odierna riproposizione apparirebbe del tutto inverosimile ed improponibile.
Cosa occorrerebbe, allora per tentare di mettere mano al problema? Ritengo si debbano utilizzare le normative già in vigore, senza dover ricorrere a nulla di straordinario, attraverso un maggiore e migliore uso delle misure alternative alla detenzione, che vanno applicate, nel rispetto delle norme, a categorie più ampie di condannati, specialmente per reati di contenuto allarme sociale e senza che ne vengano esclusi gli immigrati, laddove invece oggi si tenda a ricorrere alla concessione nei loro confronti con spropositata prudenza;
occorre garantire davvero dignitose condizioni di vita in carcere, attraverso quanto previsto dal nostro impianto normativo e regolamentare penitenziario, con particolare attenzione al mantenimento delle relazioni affettive e sociali della persona detenuta, strumenti attraverso i quali può iniziare il percorso riabilitativo di una persona condannata;
occorre ampliare le opportunità di reinserimento sociale e lavorativo, attraverso un corretto occorre utilizzare i fondi della “Cassa ammende”, ai sensi dello stesso D.P.R. n. 230 del 2000, per «il finanziamento di programmi di assistenza economica in favore delle famiglie di detenuti ed internati, nonché di programmi per favorire il reinserimento sociale di detenuti ed internati anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla detenzione» e non investendo esclusivamente sul fronte dell’edilizia penitenziaria, operazione necessaria ma lunga, dispendiosa e certamente non idonea a rispondere hic et nunc al problema del sovraffollamento .
La sentenza CEDU di questi giorni (L’Italia condannata a pagare un risarcimento danni ad un detenuto straniero a causa delle inumane condizioni detentive subite) oltre ad aprire un inquietante fronte sul piano economico (con tutti gli stranieri reclusi che abbiamo) ci dice che così non possiamo andare avanti, davanti agli occhi dell’Europa e del mondo e che stiamo gestendo un sistema penitenziario che non può essere quello di un Pese civile e progredito; certamente non è quello immaginato dalla nostra Costituzione. Casa aspettiamo?
*Docente di Criminologia penitenziaria,
Università degli studi di Brescia
Presidente di Carcere e Territorio Onlus di Brescia