di Ylenia Di Matteo
16 Ottobre 1968. Olimpiadi di Città del Messico. Tommie Smith e John Carlos conquistano il 1° e 3° posto nei 200 metri di atletica leggera. Lo sport qui assume un ruolo davvero marginale.
Nel momento in cui viene innalzata la bandiera, i due, neri e americani, abbassano lo sguardo e alzano verso il cielo il pugno coperto da un guanto nero. Carlos dirà ai giornalisti “Siamo stufi di essere cavalli da parata alle Olimpiadi e carne da cannone in Vietnam”.
17 Ottobre 2009. Roma. Manifestazione Nazionale Antirazzista.
L’orgoglio nero, il crollo del muro di Berlino, leggi e convenzioni internazionali che rifiutano le discriminazioni e salvaguardano i Diritti inalienabili dell’Uomo non hanno impedito all’Italia di nutrirsi (e produrre) un veleno ancora più potente del cianuro. Il razzismo. Un veleno che non fa ragionare, che paralizza la coscienza, che rende insensibili ai sentimenti. Così potente da innalzare una frontiera invalicabile, noi e loro, gli abili e i diversamente abili, bianchi e neri, del Nord e del Sud, cattolici e musulmani, donne e uomini.
“No al razzismo” è il tema della manifestazione certo, ma anche No al mancato rispetto della pluralità dello spirito umano, No alla contrapposizione tra passaporti nell’accesso ai diritti. Le Istituzioni devono tutelare la vita, fisica, sociale,morale, senza la preoccupazione che la questione abbia connotati politici.
Antonio Schiavone alla Thyssen, Saleh in un barcone nel Mediterraneo, Giuseppe al gay Village rappresentano la morte dei diritti. Che sia in mare o in una prigione, sul posto di lavoro o per le vie di una città, che riguardi uomini o donne, poco importa.
Il senso della manifestazione è proprio questo, creare nelle coscienze individuali un nuovo senso di identità e di integrazione. Basato sulle emozioni, sulla consapevolezza di appartenere alla comunità degli uomini, sul rispetto delle regole. E credere che la propria identità sia importante proprio perché convive con le altre. Una cittadinanza attiva. E di cuore.