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Articolo 21 - Editoriali
Napolitano non ha né compagni né cavalieri
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di Federico Orlando

Nello sfarinamento progressivo del paese, dalla maggioranza e dall’opposizione per continuare  col modello Genova delle polizie (applicato agli aquilani); col brunettismo dei neoriformatori (vedi Sapienza); con le scissioni sociali (tra Cgil e Cisl-Uil, tra Confindustria e operai, tra elettori, tra generazioni), ecc. non mi sembra il caso di lasciar cadere nel dimenticatoio la vicenda parlamentare e giornalistica che ha coinvolto il presidente Napolitano. Mi pare infatti che, nello sfarinamento generale, il capo dello stato sia l’unica e in ogni caso la più alta istituzione che continua ad essere fattore di coaugulo, per il popolo, per lo stato, per il territorio.
   Il continuo ribaldo gioco della destra nei confronti del Quirinale è destinato a proseguire, perché l’abbattimento di quell’istituzione è necessario alle speranze eversive di chi ci governa.  Spiace che, non certo per estraneità alla cultura dello stato, anche un  giornale come Il Fatto, che è punta di diamante nella battaglia per la legalità, fornisca involontariamente munizioni al fuoco degli eversori. Ma spiace molto di più -  almeno a me – che dalle culture egemoni nel Partito democratico, quella che si chiamava comunista e quella che tuttora si chiama cattolica (paese quasi unico in Occidente a usare queste aggettivazioni in politica), riemergano ogni tanto concetti o atti che coinvolgono lo stato democratico nella sua essenza. Non credo che in quell’essenza rientri un presunto carattere “sacro e inviolabile”, come si diceva una volta, del capo dello stato: a garantirne il non  coinvolgimento nella dissacrabile e sempre violabile natura partigiana della politica, pensa la Costituzione, che stabilisce pure i soli casi in cui il presidente può essere messo in stato d’accusa dal parlamento. Insieme alla Costituzione, c’è il superstite senso comune della cittadinanza, che chiede ai governanti di “coprire la corona”, come amava ripetere e insegnarci Spadolini con formula arcaica ma valida in tutte le democrazie non presidenzialiste: nelle quali invece il presidente è esso stesso parte primaria del dissacrabile e violabile scontro politico. E’ anche per questo che siamo stati e siamo contrari a ogni forma di repubblica presidenziale, a prescindere dall’aggravante che ad essa aspiri oggi Berlusconi.     
    Ora io vorrei chiedere al cattolico Ceccanti e al postcomunista Casson, che hanno proposto l’emendamento “pro Quirinale” nel ddl Alfano contro le iniziative della magistratura ordinaria, se avrebbero osato, sia pure a fin di bene, coinvolgere il papa o il presidente di una repubblica popolare socialista italiana in una iniziativa di legge, senza almeno far conoscere all’anticamera il loro intento e sollecitarne l’approvazione. Non  trarrei alcuna deduzione d’ordine generale, ma credo che, se nel Pd ci fossero meno residui di culture originarie e più cultura comune della liberaldemocrazia, quell’iniziativa non sarebbe stata presa. Che poi il giornale di famiglia del Cav, fingendo di spiegare il suo colpo di lupara contro il Colle, scriva che il presidente non  deve lamentarsi contro chi spara  ma coi suoi “compagni”, dimostra quanto la destra che scelleratamente ci governa sia ancor più lontana della sinistra dalla liberaldemocrazia. Convincersi  che il capo dello stato, in una repubblica parlamentare, non abbia e non possa avere né compagni né cavalieri né camerati né confratelli, ma soltanto cittadini uguali, di cui essere garante, è troppo difficile per i fautori della “politica nuova”: quella a cui Berlusconi avrebbe aperto, nientemeno, il terzo millennio. Un discorso già orecchiato nella remota infanzia, quando ci si spiegava che Mussolini aveva cancellato non la politica ma la vecchia politica, e aperto la nuova Era. L’Era fascista. Per cui non  ci resta che ripetere l’obbiezione del dimenticato (e si capisce) Benedetto Croce: “L’Era è fascista, ma il tempo è galantuomo”.

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