di Giuliano Garavini
Sul fatto che l’attacco alla Libia configuri una guerra neocoloniale non ci sono dubbi. Le potenze europee direttamente coinvolte nell’azione militare erano le principali potenze coloniali nella regione mediorientale e nordafricana ancora dopo la Seconda guerra mondiale: la Francia, la Gran Bretagna, e l’Italia. A rinforzare il simbolismo della guerra neocoloniale il fatto che questo ritorno militare nel nord Africa avvenga contro il protagonista della liberazione della Libia dal giogo coloniale: il colonnello Gheddafi che nel 1969 aveva emancipato la Libia dal controllo occidentale ed era stato uno dei protagonisti del processo che portò allo shock petrolifero del 1973 (un evento epocale per i paesi produttori di petrolio) e alla nazionalizzazione delle risorse petrolifere in tutto il mondo arabo.
Una guerra neocoloniale può essere anche una guerra giusta? In altre parole: una guerra neocoloniale può essere giustificata in nome della difesa dei “diritti umani”, della protezione del popolo che reclama la libertà da un tiranno, del sostegno ai processi di democratizzazione in tutto il mondo arabo?
Per rispondere a questa domanda non possiamo prescindere dal porre quanto sta avvenendo in questi giorni nella prospettiva della storia recente. Non possiamo, cioè, evitare di porre l’accento sul fatto che dalla fine degli anni Settanta la politica dei principali paesi europei nella regione, e dell’Unione europea tutta, sia stata semplicemente quella mercantilistica della salvaguardia del proprio portafogli.
Fra il 1995 e il 2008, nell’ambito dello schema chiamato Partenariato euro-mediterraneo (Pen), sono stati firmati 7 accordi di associazione tra l’Unione europea e Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Tunisia. L’attenzione di questi accordi bilaterali è stata tutta rivolta alla necessità di promuovere il libero commercio fra le due sponde e di garantire la stabilità politica della regione, fondamentale per non mettere a repentaglio gli interessi economici europei e contenere il radicalismo islamico. Dal 2008 è partito poi un nuovo progetto, quello dell’Unione per il Mediterraneo (Upm di cui Gheddafi era vicepresidente) pensata dal marketing di Sarkozy, che non è mai decollato a causa della crisi tra Israele e i suoi vicini e dell’impossibilità di dialogo fra i leader della regione.
Il Pen e i successori sono stati fino ad oggi uno strumento, non tanto di riforma della società e dell’economia dei paesi delle varie sponde del Mediterraneo, in altri termini di progresso, ma uno strumento di conservazione delle strutture sociali esistenti nel Maghreb e nei vicini paesi arabi. Leadership non prive di meriti storici ma oramai incancrenite e corrotte, da Ben Ali in Tunisia, all’FLN di Bouteflika in Algeria, a Gheddafi in Libia e Mubarak in Egitto, sono stati trasformati in interlocutori necessari e indispensabili a garantire la fornitura di energia, il controllo poliziesco sui movimenti islamici, nonché partner ideali per il dialogo sulla difesa de la Fortezza Europa dall’immigrazione incontrollata.
La Gran Bretagna ha concesso l’estradizione a un pluriomicida libico coinvolto nell’attentato Lockerbie (morirono 270 persone), accolto poi a Tripoli come un eroe. La London School of Economics ha regalato un dottorato al figlio di Gheddafi per una tesi sul ruolo strategico della società civile, e il suo rettore dell’epoca, il teorico della “terza via” Anthony Giddens, faceva conferenze congiunte con il Raiss, considerandolo uno dei più importanti pensatori della sua epoca e guida di un paese da considerarsi la Norvegia del Mediterraneo. Il presidente Sarkozy potrebbe aver accettato contributi per la campagna elettorale. Di Berlusconi sappiamo i baciamani, la tratta delle ragazze italiane da convertire all’Islam, i trattati di eterna Amicizia con la Libia e gli scambi azionari con alcune delle principali società del nostro paese.
La tesi degli interventisti è che tutto questo portato storico non conti assolutamente nulla. Da un giorno all’altro (nel senso letterale del termine) paesi che avevano trattato Gheddafi come un faraone e un profeta insieme diventerebbero credibili sostenitori delle ribellioni democratiche nel Mediterraneo.
Mi si permetta di dubitarne. Il sostegno ai movimenti di liberazione dalle tirannie è una cosa lodevole ma si deve nutrire di obiettivi, di pratiche comuni e di solidarietà con i protagonisti di questi movimenti. Per esempio aveva senso sostenere, anche militarmente, la lotta dei democratici e socialisti spagnoli contro il regime di Franco o quella contro la Grecia dei colonnelli. Tale lotta infatti si sosteneva su forti legami tra i movimenti di liberazione con le forze politiche democratiche dell’Europa occidentale, in primo luogo, ma non solamente, con partiti e sindacati. Così come, caso più controverso, anche gli interventi militari di Cuba a metà degli anni Settanta per la liberazione di Angola e Mozambico contro la dominazione portoghese potevano essere giustificati da una autentica fratellanza dei rispettivi movimenti di liberazione, così come dalla comune aspirazione alla lotta contro l’imperialismo e per una società socialista.
Questa necessaria comunanza di ideali, di pratiche e di contatti non è stata costruita con i ribelli della Libia che, fino a ieri, semplicemente non esistevano nei radar delle forze politiche e sociali europee, non erano sostenuti da nessuno, e ancora oggi non hanno un progetto in qualche modo identificabile. L’intervento militare di leader conservatori europei si configura così semplicemente come un modo per acquisire controllo sui giacimenti di un paese importante dell’Opec proprio in un momento in cui la questione energetica sarà al centro della politica internazionale, e proprio in un momento in cui il legame con i dittatori del Mediterraneo stava mettendo in imbarazzo le varie leadership conservatrici europee.
Non è questo il momento per esaltare la guerra umanitaria. E’ il momento invece di opporsi risolutamente a questa guerra e di battersi per un’Europa che gestisca in modo “umanitario” l’immigrazione da questi paesi in difficoltà e metta in campo una strategia di lungo termine e pacifica per promuoverne lo sviluppo economico e la democrazia.