Articolo 21 - Editoriali
1032, maschera bianca. Una proposta in margine alla Marcia della Pace ed alla dismissione del Patrimonio pubblico
di Giuseppe Basile
1032 era il numero con il quale ho marciato da Perugia ad Assisi il 25 scorso, indossando una maschera bianca assieme ad altri 1499, dietro la “barca” e gli striscioni di Amnesty International, per ricordare in silenzio l’immensa tragedia dei 1500 nostri simili annegati nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere gli estremi lembi meridionali della “civile” Europa. Altri più “fortunati” quei lembi riescono a toccarli, salvo poi essere costretti a vivere situazioni assolutamente inumane, di cui proprio le cronache di questi ultimissimi giorni – i “disordini” tenacemente preordinati a Lampedusa, le “galere” dinanzi al porto di Palermo – danno inequivocabile testimonianza.
Se questo è lo “spirito”, il dovere non solo etico ma anche politico dell’”accoglienza”, ratificato (non importa qui se per falsa coscienza) dall’Europa ma clamorosamente (e provocatoriamente) disatteso dall’Italia !…
La prima cosa che bisogna garantire a questi “dannati della vita”, oltre alla pura e semplice sopravvivenza, è lo “spazio vitale”, quel tanto di spazio fisico chiuso e sicuro che gli consenta di condurre, almeno sotto quell’aspetto, un’esistenza non del tutto indegna della condizione umana – come certo non viene garantito oggi nei centri di varia “accoglienza”.
Orbene il Governo italiano – come ha confermato ancora ieri pubblicamente il ministro Tremonti nel corso di un seminario sulla “dismissione”, prevista nella manovra economica, del patrimonio pubblico – intenderebbe fare cassa proprio con la vendita di parte di esso, evidentemente non all’enorme numero di senzatetto o anche di giovani coppie in cerca di un alloggio, che certamente in un periodo di crisi nera non avrebbero nessuna possibilità di farlo, ma a speculatori che la stanno aspettando come una vera e propria manna dal cielo. Del resto il meccanismo è noto e ben collaudato: basta fare andare deserta la prima o le prime aste e l’affare è fatto, dato che poi si può procedere legalmente a trattativa privata e quindi con la massima libertà; ed è anche vero che il più recente tentativo in tal senso, sotto il precedente governo Berlusconi, era finito in un clamoroso fallimento per le casse dello Stato.
Perché allora non destinare ad uso abitativo per questi e i tantissimi altri derelitti che vivono nel nostro Paese almeno una parte degli immobili che si vorrebbero vendere?
Gli immobili demaniali militari destinati in prima battuta alla dismissione si presterebbero per lo più (in particolare le caserme) a tipologie di modifiche funzionali a fini abitativi abbastanza soft e pertanto poco costose, soprattutto se si tiene conto dei risultati eccellenti raggiunti dalla cultura architettonica del nostro Paese in tema di recupero di edifici storici, anche in maniera “seriale”.
Potrebbe costituire, ovviamente, un piccolo ma non irrilevante volano occupazionale per tutta la filiera professionale e imprenditoriale coinvolta in un processo che andrebbe dalla progettazione alla esecuzione dei lavori, con in più la garanzia di una gestione tecnica pubblica di sicura esperienza, oltre ovviamente al mantenimento degli immobili in questione nel patrimonio pubblico.
Ad evitare i rischi prevedibilissimi cui un’operazione del genere potrebbe andare incontro (sotto l’aspetto della correttezza tecnica, contabile-amministrativa, etc.) la gestione ne andrebbe affidata a soggetti giuridici di nuova costituzione, a struttura mista pubblico-privata ( con presenza obbligata del “terzo settore”) e a carattere prevalentemente tecnico-specialistico in funzione della economicità e della qualità degli obiettivi da realizzare.
Se questo è lo “spirito”, il dovere non solo etico ma anche politico dell’”accoglienza”, ratificato (non importa qui se per falsa coscienza) dall’Europa ma clamorosamente (e provocatoriamente) disatteso dall’Italia !…
La prima cosa che bisogna garantire a questi “dannati della vita”, oltre alla pura e semplice sopravvivenza, è lo “spazio vitale”, quel tanto di spazio fisico chiuso e sicuro che gli consenta di condurre, almeno sotto quell’aspetto, un’esistenza non del tutto indegna della condizione umana – come certo non viene garantito oggi nei centri di varia “accoglienza”.
Orbene il Governo italiano – come ha confermato ancora ieri pubblicamente il ministro Tremonti nel corso di un seminario sulla “dismissione”, prevista nella manovra economica, del patrimonio pubblico – intenderebbe fare cassa proprio con la vendita di parte di esso, evidentemente non all’enorme numero di senzatetto o anche di giovani coppie in cerca di un alloggio, che certamente in un periodo di crisi nera non avrebbero nessuna possibilità di farlo, ma a speculatori che la stanno aspettando come una vera e propria manna dal cielo. Del resto il meccanismo è noto e ben collaudato: basta fare andare deserta la prima o le prime aste e l’affare è fatto, dato che poi si può procedere legalmente a trattativa privata e quindi con la massima libertà; ed è anche vero che il più recente tentativo in tal senso, sotto il precedente governo Berlusconi, era finito in un clamoroso fallimento per le casse dello Stato.
Perché allora non destinare ad uso abitativo per questi e i tantissimi altri derelitti che vivono nel nostro Paese almeno una parte degli immobili che si vorrebbero vendere?
Gli immobili demaniali militari destinati in prima battuta alla dismissione si presterebbero per lo più (in particolare le caserme) a tipologie di modifiche funzionali a fini abitativi abbastanza soft e pertanto poco costose, soprattutto se si tiene conto dei risultati eccellenti raggiunti dalla cultura architettonica del nostro Paese in tema di recupero di edifici storici, anche in maniera “seriale”.
Potrebbe costituire, ovviamente, un piccolo ma non irrilevante volano occupazionale per tutta la filiera professionale e imprenditoriale coinvolta in un processo che andrebbe dalla progettazione alla esecuzione dei lavori, con in più la garanzia di una gestione tecnica pubblica di sicura esperienza, oltre ovviamente al mantenimento degli immobili in questione nel patrimonio pubblico.
Ad evitare i rischi prevedibilissimi cui un’operazione del genere potrebbe andare incontro (sotto l’aspetto della correttezza tecnica, contabile-amministrativa, etc.) la gestione ne andrebbe affidata a soggetti giuridici di nuova costituzione, a struttura mista pubblico-privata ( con presenza obbligata del “terzo settore”) e a carattere prevalentemente tecnico-specialistico in funzione della economicità e della qualità degli obiettivi da realizzare.
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