Articolo 21 - Editoriali
Abolire l'art. 18 serve solo a chi vuole spaccare la sinistra
di Giulio Sardi
Dopo aver riformato le pensioni, il governo Monti si appresta a metter mano al mercato del lavoro e sembra intenzionato ad utilizzare come base di partenza una ipotesi molto simile alla flexsecurity di Pietro Ichino. Si tratta, in estrema sintesi, del paradosso di un contratto unico a tempo indeterminato ma con libertà assoluta di licenziare e di un sostegno economico legato alla formazione del licenziato, in modo che possa trovare un nuovo e diverso lavoro in cui ricollocarsi.
In realtà la parte "security" sarebbe tutta da verificare: l'unica sicurezza che il lavoratore avrebbe sarebbe quella della sua "nuova formazione", non quella che tale "nuova formazione" lo porti ad un nuovo posto di lavoro. La parte "flex", invece, si realizzerebbe immediatamente con la cancellazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, cioé quello che punisce con il reintegro, solo per le imprese con più di quindici dipendenti, i licenziamenti vietati dalla legge, cioé non per giusta causa (gravi inadempimenti del lavoratore) o per giustificato motivo, anche oggettivo (esigenze economiche di ristrutturazione dell'azienda, che in quanto tali sono già ampiamente tutelate, tant'è che siamo attualmente vicini ad un miliardo di ore di cassa integrazione).
ll principale motivo per cui Ichino ritiene necessario cancellare l'art. 18 è il tempo lungo (da 2 a 6 anni) per la definizione delle cause giudiziarie per licenziamento, che lascerebbero le aziende in una situazione d'incertezza insostenibile. E' come dire che, siccome i tempi della giustizia penale sono lunghi, non si procede a riformare la giustizia, ma si dà ai cittadini la libertà di delinquere, obbligandoli tutt'al più a risarcire la vittima del reato.
Ma qual'è l'impellente esigenza che spinge a comprimere il valore costituzionale dell'esistenza libera e dignitosa del lavoratore? Di cosa stiamo parlando? E' presto detto: di una cinquantina di cause all'anno per violazione dell'art. 18, tra l'altro in un contesto di crisi in cui ci sono 2 milioni e mezzo di persone che non trovano lavoro, in cui l'80% degli assunti sono precari ed in cui, nel 2012, si prevedono ben 800.000 licenziamenti. Tant'è che neppure Confindustria ha messo l'abolizione dell'art. 18 nelle sue richieste al governo.
A chi serve, allora, abrogare l'art. 18? Serve solo ai fautori di quel progetto politico che punta alla cancellazione della sinistra. Lo stesso progetto che, con il governo Monti, ha prima impedito che una coalizione di sinistra vincesse le elezioni e governasse, per poi dividere sulla manovra il PD dall'IdV e da Sel, stracciando di fatto la foto di Vasto, e che ora punta alla scissione dello stesso PD, dove le posizioni della maggioranza (?) bersaniana dei Fassina, Damiano e Cofferati faticheranno non poco a conciliarsi con quelle della minoranza (?) veltroniana dei Letta, Fioroni ed Ichino. In modo che in campo resti solo il partito unico centrista, imbattibile come la DC dei bei tempi andati.
In realtà la parte "security" sarebbe tutta da verificare: l'unica sicurezza che il lavoratore avrebbe sarebbe quella della sua "nuova formazione", non quella che tale "nuova formazione" lo porti ad un nuovo posto di lavoro. La parte "flex", invece, si realizzerebbe immediatamente con la cancellazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, cioé quello che punisce con il reintegro, solo per le imprese con più di quindici dipendenti, i licenziamenti vietati dalla legge, cioé non per giusta causa (gravi inadempimenti del lavoratore) o per giustificato motivo, anche oggettivo (esigenze economiche di ristrutturazione dell'azienda, che in quanto tali sono già ampiamente tutelate, tant'è che siamo attualmente vicini ad un miliardo di ore di cassa integrazione).
ll principale motivo per cui Ichino ritiene necessario cancellare l'art. 18 è il tempo lungo (da 2 a 6 anni) per la definizione delle cause giudiziarie per licenziamento, che lascerebbero le aziende in una situazione d'incertezza insostenibile. E' come dire che, siccome i tempi della giustizia penale sono lunghi, non si procede a riformare la giustizia, ma si dà ai cittadini la libertà di delinquere, obbligandoli tutt'al più a risarcire la vittima del reato.
Ma qual'è l'impellente esigenza che spinge a comprimere il valore costituzionale dell'esistenza libera e dignitosa del lavoratore? Di cosa stiamo parlando? E' presto detto: di una cinquantina di cause all'anno per violazione dell'art. 18, tra l'altro in un contesto di crisi in cui ci sono 2 milioni e mezzo di persone che non trovano lavoro, in cui l'80% degli assunti sono precari ed in cui, nel 2012, si prevedono ben 800.000 licenziamenti. Tant'è che neppure Confindustria ha messo l'abolizione dell'art. 18 nelle sue richieste al governo.
A chi serve, allora, abrogare l'art. 18? Serve solo ai fautori di quel progetto politico che punta alla cancellazione della sinistra. Lo stesso progetto che, con il governo Monti, ha prima impedito che una coalizione di sinistra vincesse le elezioni e governasse, per poi dividere sulla manovra il PD dall'IdV e da Sel, stracciando di fatto la foto di Vasto, e che ora punta alla scissione dello stesso PD, dove le posizioni della maggioranza (?) bersaniana dei Fassina, Damiano e Cofferati faticheranno non poco a conciliarsi con quelle della minoranza (?) veltroniana dei Letta, Fioroni ed Ichino. In modo che in campo resti solo il partito unico centrista, imbattibile come la DC dei bei tempi andati.
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