di Francesco Porpora*
Adriano Celentano è un grandissimo cantante: non a caso è sulla cresta dell’onda da più di 50 anni. Non è necessario essere un critico o uno storico della musica per riconoscergli già dall’inizio della carriera negli anni cinquanta la grandissima capacità di intercettare con istinto animale i cambiamenti musicali e di gusto nella società italiana. Lo dimostrano i suoi sfrenati rock and roll che hanno segnato la storia del nostro costume. Mentre tutti i cantanti si sgolavano in smielate melodie, Celentano faceva irruzione nell’Italietta canora benpensante con i suoi “24 mila baci” rovesciando tutti i tavoli del perbenismo conformistico e non solo musicale. Una capacità quella di anticipare i tempi che ha conservato negli anni: da “Azzurro” all’impossibile scioglilingua “Prisencolinensinainciusol”, che agli inizi del ’70 anticipò il rap, ispirò James Brown ed entrò addirittura nelle classifiche dei dischi più venduti negli Stati Uniti. Ecco pagato il debito con il grande cantante.
Le sue posizioni politiche sono sempre state secondarie rispetto al suo indiscusso valore artistico. In fondo non posso dimenticare che mentre l’Italia tra violenti strappi, terrorismo e richieste di allargamento della democrazia stava cambiando a velocità della luce, Celentano in coppia con la moglie vinceva il festival di San Remo nel 1970 con una canzone oscurantista come “Chi non lavora non fa l’amore”, orecchiabile, carina anche a distanza di 40 anni ma sicuramente conservatrice se non reazionaria. Oggi magari ci fa sorridere ma all’epoca quanta rabbia.
Non ho mai però apprezzato le sue intemerate da maitre à penser dei poveri. In fondo per quanto riguarda questo aspetto “filosofico” della sua personalità, sono d’accordo con il compianto Giorgio Bocca che lo definiva “un cretino di talento”. Negli anni questa parte del suo ego è andata dilatandosi a dismisura: oggi contenerla è impossibile. Ne abbiamo avuto ieri una prova a San Remo quando se l’è presa con Avvenire e Famiglia Cristiana che vanno chiusi perché non parlano del paradiso. Forse ha ragione Marco Tarquinio, direttore del quotidiano della Conferenza Episcopale Italia, quando scrive nel suo editoriale che “con quel che costa lui alla Rai per una serata si potevano non chiudere le sedi giornalistiche Rai nel Sud del mondo (in Africa, in Asia, in Sud America) e farle funzionare per un anno intero”.
Tarquinio coglie indirettamente anche un altro aspetto di questa penosa vicenda: l’attuale consiglio di amministrazione della Rai è giunto da tempo al capolinea e nonostante gli autorevoli appelli di “Signori, si scende. La corsa è finita” nessuno dei componenti ancora ha il coraggio di ritenere finita la corsa. Forse tutti sperano in una proroga del mandato, magari sognano uno sgabellino da occupare in futuro nei piani bassi di viale Mazzini proprio per non essere costretti ad occupare il tempo da pensionati leggendo il giornale nei vicini giardini di piazza Mazzini, magari con emolumento all’altezza dei fasti passati. L’orribile sceneggiata a cui ha dato vita il direttore generale Lorenza Lei che con un sms prima del festival intendeva cancellare Celentano (per poi smentire) è l’ennesima riprova di una incapacità manageriale senza precedenti. Questo con(s)iglio di amministrazione avrebbe fatto la gioia della buonanima di Corrado Mantoni quando presentava la trasmissione “La Corrida. Dilettanti allo sbaraglio”. Un consiglio incapace di una visione strategica sul futuro dell’azienda. Pronto a sborsare 700 mila euro a Bobo Vieri e poco meno di 500 mila a Gianni Rivera per “Ballando sotto le stelle” , trasmissione tra l’altro battuta in ascolti dalla De Filippi, e pronto a richiamare dalla pensione numerosi ex dipendenti Rai (il direttore Maccari del Tg1 è in buona compagnia). Ma (come scrive appunto Marco Tarquinio) altrettanto veloce a cancellare 7 sedi estere, con tanto di benedizione del presidente Garimberti che (visto i suoi trascorsi di corrispondente estero per i quotidiani) dovrebbe ben sapere la risorsa che rappresentano gli uffici di corrispondenza. Certo questo cda non ha timore di andare contro tendenza. Pensate ad esempio che la China Central Television (Cctv), la tv statale cinese, ha appena aperto una redazione a Nairobi che si aggiunge alle altre 19 sparse per l’ Africa. Mentre l’agenzia di stampa cinese Xinhua è da tempo radicata nel continente.
Sicuramente le prediche del Molleggiato hanno fatto il pieno di ascolti (si parla di 15 milioni di telespettatori) conquistando le prime pagine dei giornali e sbaraccando la concorrenza che ha cancellato gli appuntamenti di punta. Ma credo che ci abbia molto impoveriti come spettatori. Appena qualche giorno fa siamo stati privati dal Tg1 di saperne un po’ di più sul complotto denunciato da “Il fatto” ai danni del Papa: vero o fasullo avrei desiderato da spettatore che paga il canone approfondire la questione e non avere solo una smentita secca ad una mancata notizia.
Come al solito ora comincia la corsa a prendere le distanze da Celentano, ci si cospargerà il capo di cenere ma nessuno proverà minimamente vergogna per le tante notizie bistrattate o volutamente ignorate. Tutti invocano il modello Bbc fatto di autorevolezza, distanza dai partiti, canone (alto) pagato da tutti ma dimenticano la principale caratteristica della tv pubblica inglese: chi sbaglia paga, come è già successo a due direttori.
*lettera firmata- Trento.