Articolo 21 - Editoriali
Giustizia non saraâ fatta
di Kalimero
Le notizie della Grecia commissariata dalla UE e le immagini di Atene in fiamme sono sufficientemente spaventose da ricordare a noi italiani che, dopo ogni carnevale, arriva la quaresima ed è questa tradizionale consapevolezza che ci fa accettare, con senso di responsabilità e di rassegnazione, in espiazione di fin troppo recenti carnevalate, l’era di Monti con la sua sobrietà, la sua compostezza, la sua austerità, la sua arguzia tanto compassata da sfiorare il lugubre. In adempimento delle dantesche leggi del contrappasso, stiamo accettando, quasi senza batter ciglio, la cura che per troppo tempo avevamo rimandato godendoci i tempi dei condoni, delle vacche grasse, del rubamazzo e del bunga bunga.
Così intrisi di sensi di colpa, digeriamo cure da cavallo di tasse, imposte e accise convinti che non ci sia altra soluzione per allontanare da noi lo spettro ellenico e la catastrofica minaccia del default di Stato.
Tanto poco selettivi siamo diventati rispetto agli interventi del governo tecnico, che ci compiacciamo di vedere finalmente tassato a 703 euro al giorno lo stazionamento in un porto italiano di un natante di 65 metri senza pensare che basta spostarlo in Francia, Spagna, Croazia, Montenegro o Grecia per evitare il balzello e mettere sul lastrico gran parte di quei 100.000 lavoratori dell’indotto che campano sulla nautica italiana.
Allo stesso modo sembra passato sotto silenzio l’aumento vertiginoso del contributo unificato per iscrivere al ruolo dei tribunali italiani ormai qualunque causa. Una vertenza di valore superiore a 26.000 euro, costa 450 euro e l’importo aumenta della metà per l’appello e del doppio per la cassazione. Se, poi, il valore supera i 520.000 euro, il contributo aumenta a euro 1.466 per il primo grado con la già descritta progressione per i gradi successivi. Chi intende impugnare in sede amministrativa l’esito di una gara di pubblico appalto, deve pagare 4.000 euro di contributo unificato a prescindere dal valore del contratto, ma non è raro il caso di pagarlo nuovamente e ripetutamente per la scoperta progressiva di ulteriori documenti lesivi della posizione del ricorrente e da impugnare con autonomi “ricorsi per motivi aggiunti”, ciascuno dei quali può finire assoggettato ad un nuovo contributo. Più grave appare, poi, la concentrazione di tutte le liti riguardanti le imprese presso i dodici tribunali italiani cui, dal 2003, erano riservate le materie della proprietà intellettuale ed industriale: per le liti societarie il contributo viene addirittura quadruplicato sicché una lite tra soci, di valore superiore a 520.000 euro, costerà quasi 6.000 euro in primo grado, 9.000 in appello e 12.000 in cassazione per un totale di quasi 27.000 euro oltre al costo dei difensori, spesso duplicati per la necessità di rivolgersi al Foro del tribunale competente, tra i dodici prescelti dalla legge, rispetto alla sede dell’impresa.
Simili aumenti mirano, evidentemente, a scoraggiare il ricorso alla giustizia, ormai intasata di cause che aumentano di anno in anno ed il cui arretrato non si riesce a smaltire, ma qui non si possono trascurare, come per i natanti, gli effetti indotti perché ne va di mezzo un pezzo di democrazia.
Una così rilevante mole di contenzioso, stimata in 6 milioni di processi pendenti, non può essere imputata alla voglia degli italiani di partecipare all’agone giudiziario: chi agisce in giudizio, nella stragrande maggioranza dei casi, vuole vincere per contrastare un’ingiustizia subita. Ma quando un qualunque cittadino ricorre al magistrato per conseguire il riconoscimento di un bene della vita che ritiene di sua spettanza, stimola anche un controllo sui comportamenti degli altri concittadini e, quindi, agisce, sia pure indirettamente, nell’interesse dell’intera collettività alla buona fede e all’onestà dei traffici che assicurano quella serena e civile convivenza da cui dipende la competitività di un ordinamento rispetto agli altri.
E’ noto che nel settore dei pubblici appalti si annidano spesso malaffare e corruzione e la cronaca giornalistica non smette di ricordarcelo. Imporre un balzello di 4000 euro solo per denunciare in primo grado, entro trenta giorni, le irregolarità della gara, col rischio che proprio la pubblica amministrazione, diluendo nel tempo la consegna dei documenti, finisca con l’imporre i “motivi aggiunti” che possono costare altrettanto, può indurre il concorrente a desistere dalla contestazione della gara viziata consentendo ai furbi di farla franca.
Contro l’amministratore unico con poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione di una società di Cagliari che abbia venduto a terzi l’unica azienda sociale intascando personalmente il prezzo, l’altro socio dovrà mettere in bilancio le spese di difesa e di trasferta del proprio difensore dinanzi al Tribunale di Roma, oltre ai costi di un domiciliatario nella capitale e ben 27.000 euro di contributo unificato, ma nessuno gli darà certezza che, anche vincendo, potrà recuperare la perdita inflittagli dall’amministratore infedele. E neppure gli si potrà garantire, almeno, il recupero delle spese affrontate.
Contributi unificati e costi così alti per adire le vie legali scoraggiano, è vero, le liti, ma chi ci perde non è solo chi non possa reagire economicamente all’ingiustizia patita, bensì è l’intera collettività che vedrà crescere il numero dei lestofanti incoraggiati dalla mancata reazione delle vittime.
Il governo dei professori ha partorito una riforma della giustizia parametrata ai redditi dei suoi componenti dimenticandosi che il 95% del tessuto economico dell’Italia è fatto di imprese con meno di quindici dipendenti.
Era questa la competitività cui pensava il governo tecnico quando ha varato il decreto sulle liberalizzazioni?
Così intrisi di sensi di colpa, digeriamo cure da cavallo di tasse, imposte e accise convinti che non ci sia altra soluzione per allontanare da noi lo spettro ellenico e la catastrofica minaccia del default di Stato.
Tanto poco selettivi siamo diventati rispetto agli interventi del governo tecnico, che ci compiacciamo di vedere finalmente tassato a 703 euro al giorno lo stazionamento in un porto italiano di un natante di 65 metri senza pensare che basta spostarlo in Francia, Spagna, Croazia, Montenegro o Grecia per evitare il balzello e mettere sul lastrico gran parte di quei 100.000 lavoratori dell’indotto che campano sulla nautica italiana.
Allo stesso modo sembra passato sotto silenzio l’aumento vertiginoso del contributo unificato per iscrivere al ruolo dei tribunali italiani ormai qualunque causa. Una vertenza di valore superiore a 26.000 euro, costa 450 euro e l’importo aumenta della metà per l’appello e del doppio per la cassazione. Se, poi, il valore supera i 520.000 euro, il contributo aumenta a euro 1.466 per il primo grado con la già descritta progressione per i gradi successivi. Chi intende impugnare in sede amministrativa l’esito di una gara di pubblico appalto, deve pagare 4.000 euro di contributo unificato a prescindere dal valore del contratto, ma non è raro il caso di pagarlo nuovamente e ripetutamente per la scoperta progressiva di ulteriori documenti lesivi della posizione del ricorrente e da impugnare con autonomi “ricorsi per motivi aggiunti”, ciascuno dei quali può finire assoggettato ad un nuovo contributo. Più grave appare, poi, la concentrazione di tutte le liti riguardanti le imprese presso i dodici tribunali italiani cui, dal 2003, erano riservate le materie della proprietà intellettuale ed industriale: per le liti societarie il contributo viene addirittura quadruplicato sicché una lite tra soci, di valore superiore a 520.000 euro, costerà quasi 6.000 euro in primo grado, 9.000 in appello e 12.000 in cassazione per un totale di quasi 27.000 euro oltre al costo dei difensori, spesso duplicati per la necessità di rivolgersi al Foro del tribunale competente, tra i dodici prescelti dalla legge, rispetto alla sede dell’impresa.
Simili aumenti mirano, evidentemente, a scoraggiare il ricorso alla giustizia, ormai intasata di cause che aumentano di anno in anno ed il cui arretrato non si riesce a smaltire, ma qui non si possono trascurare, come per i natanti, gli effetti indotti perché ne va di mezzo un pezzo di democrazia.
Una così rilevante mole di contenzioso, stimata in 6 milioni di processi pendenti, non può essere imputata alla voglia degli italiani di partecipare all’agone giudiziario: chi agisce in giudizio, nella stragrande maggioranza dei casi, vuole vincere per contrastare un’ingiustizia subita. Ma quando un qualunque cittadino ricorre al magistrato per conseguire il riconoscimento di un bene della vita che ritiene di sua spettanza, stimola anche un controllo sui comportamenti degli altri concittadini e, quindi, agisce, sia pure indirettamente, nell’interesse dell’intera collettività alla buona fede e all’onestà dei traffici che assicurano quella serena e civile convivenza da cui dipende la competitività di un ordinamento rispetto agli altri.
E’ noto che nel settore dei pubblici appalti si annidano spesso malaffare e corruzione e la cronaca giornalistica non smette di ricordarcelo. Imporre un balzello di 4000 euro solo per denunciare in primo grado, entro trenta giorni, le irregolarità della gara, col rischio che proprio la pubblica amministrazione, diluendo nel tempo la consegna dei documenti, finisca con l’imporre i “motivi aggiunti” che possono costare altrettanto, può indurre il concorrente a desistere dalla contestazione della gara viziata consentendo ai furbi di farla franca.
Contro l’amministratore unico con poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione di una società di Cagliari che abbia venduto a terzi l’unica azienda sociale intascando personalmente il prezzo, l’altro socio dovrà mettere in bilancio le spese di difesa e di trasferta del proprio difensore dinanzi al Tribunale di Roma, oltre ai costi di un domiciliatario nella capitale e ben 27.000 euro di contributo unificato, ma nessuno gli darà certezza che, anche vincendo, potrà recuperare la perdita inflittagli dall’amministratore infedele. E neppure gli si potrà garantire, almeno, il recupero delle spese affrontate.
Contributi unificati e costi così alti per adire le vie legali scoraggiano, è vero, le liti, ma chi ci perde non è solo chi non possa reagire economicamente all’ingiustizia patita, bensì è l’intera collettività che vedrà crescere il numero dei lestofanti incoraggiati dalla mancata reazione delle vittime.
Il governo dei professori ha partorito una riforma della giustizia parametrata ai redditi dei suoi componenti dimenticandosi che il 95% del tessuto economico dell’Italia è fatto di imprese con meno di quindici dipendenti.
Era questa la competitività cui pensava il governo tecnico quando ha varato il decreto sulle liberalizzazioni?
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