di Combonifem*
Ringrazio Articolo 21 e in particolare Nella Condorelli, per averci invitate a portare il nostro contributo a questa assemblea. Parlo a nome di una redazione quella della rivista missionaria comboniana, Combonifem, che si occupa di donne, di immigrazione, dei Sud del mondo, con quella che oramai viene chiamata “ottica di genere”, che nella realtà quotidiana è semplicemente lo sguardo che noi donne abbiamo verso il mondo.
In questo ultimo anno abbiamo finalmente assistito a un risveglio di attenzione sull’uso delle parole nei confronti delle minoranze migranti. Abbiamo visto nascere un organismo, l’Associazione Carta di Roma, che si propone di promuovere iniziative per assicurare una responsabilità sociale dei media sui temi dell’immigrazione e dell’asilo politico, per garantire rispetto alle minoranze, la correttezza dell’informazione e il superamento degli stereotipi. Ci auguriamo davvero, occupandoci quotidianamente di donne e di uomini migranti, che questa Associazione possa marcare la differenza tra un prima e un dopo la sua nascita; che sappia contrastare in maniera concreta quella che non possiamo non chiamare “discriminazione a mezzo stampa”. Una discriminazione che si alimenta proprio dall’uso che fanno i media di termini come “clandestino”, “vu’ cumprà”, “extracomunitario”.
La lingua rispecchia la cultura di una società, ne è una componente fortemente simbolica. Le parole non si limitano a descrivere le categorie sociali, hanno il potere di costruire, sostenere, rafforzare, diffondere vecchi e nuovi stereotipi culturali rispetto – e ora arrivo a quell’ottica di genere che contraddistingue la nostra rivista – ai ruoli attribuiti alle donne e agli uomini. Noi donne lo sappiamo bene, perché di queste scelte linguistiche, capaci di veicolare immagini distorte del femminile, siamo diventate, nostro malgrado, oggetto. E allora è da noi che deve partire (permettetemi una parola non più di moda, ma di certo evocativa di un fare determinante) una nuova Costituente del fare giornalismo.
Noi che tutti i giorni scriviamo sui giornali, su internet; noi che pensiamo riviste, scegliamo gli argomenti, passiamo articoli e foto. Siamo chiamate, tutte e tutti, per il ruolo mediatico che rivestiamo, a un impegno costante, quotidiano. Non possiamo più demandare, non possiamo più limitarci a puntare il dito, né vogliamo continuare, noi, per prime e primi, a perpetuare stereotipi che non ci appartengono.
Nell’adoperare le parole, nostro strumento di lavoro, dobbiamo essere responsabili. Non possiamo, quando scegliamo un termine, venir meno a questa responsabilità. Un giornalismo rispettoso del genere passa attraverso un uso corretto della lingua, fondamentale per il superamento delle disuguaglianze. Un esempio che ultimamente ritorna spesso è quello della femminilizzazione dei termini. Ci sono oggi dei nomi, delle cariche politiche o di potere che non si riesce a declinare al femminile. Tanto è scontato in Germania chiamare Angela Merkel “cancelliera”, quanto provoca derisione, anche tra colleghi a volte, chiamare Elsa Fornero “ministra”. Ma inspiegabilmente, questa mancata femminilizzazione della carica si accompagna però all’esigenza di femminilizzare il cognome. In modo che sia chiaro, già a partire dal titolo, che LA Fornero è donna.
Non crediamo sia un semplice dettaglio, crediamo invece che “dettagli” come questi siano segnale di qualcos’altro. Questa mancata declinazione al femminile dei nomi di potere ha un significato, cela una motivazione culturale, disconosce un ruolo, impedisce la creazione di un’identità di genere paritaria nelle generazioni più giovani. Non regge più la giustificazione che ministra, sindaca, assessora, suonano male… suonano male a chi? Ministra era già usato da Leonardo e Carducci!
Quest’ultimo anno ci sono stati tanti incontri e iniziative sull’esposizione del corpo della donna, diverse Campagne sulle immagini pubblicitarie irrispettose, che veicolano sempre lo stesso messaggio, il medesimo stereotipo femminile. Ma non possiamo più limitarci a una battaglia sui corpi, non possiamo farci trascinare, noi per prime, a parlare e dedicare pagine intere alla farfallina di Belen. Guardate, viviamo una decadenza culturale che ci ha ridotte a essere un “tema”: siamo tornate a essere, come negli anni Settanta, “questione di genere”, che poi si declina sempre attraverso la stessa gabbia di categorie prestabilite. Ma noi non siamo, oggi come allora, né “questione” né “tema”, siamo un soggetto politico, e come tale dobbiamo essere riconosciute. E il primo riconoscimento passa per il linguaggio. Basti pensare come è proprio attraverso la scelta delle parole che oggi assistiamo a una delegittimazione delle competenze.
Ritorno alla ministra Fornero, che spesso è stata descritta facendo ricorso a luoghi comuni che l’hanno dipinta come “l’icona di una fontana che piange” (tipico femminile!), una “maestrina” (neanche maestra, maestrina…) e “agitata” (incapace di reggere i pesi del potere…). Questo lessico sessista deve essere sottolineato dai media, è sui contenuti che dobbiamo puntare non su come alcuni definiscono i contenitori. Ma la verità è che una parte di giornalismo sguazza quando si trova davanti al pruriginoso, al costume che scade nel gossip, alla “chicca” di colore che riempie le pagine di nulla.
Usciamo dal corpo, abbandoniamo noi per prime la rincorsa agli stereotipi, restituiamo alle donne, e anche agli uomini, non solo altri modelli e altre storie, ma anche altre parole per dirsi, dirci e descriverci. Noi giornaliste dobbiamo essere il trait d’union tra le donne reali e quelle rappresentate. Mettiamoci a lavorare insieme, come Tavolo delle donne nei media, come Giulia, come Pariodispare, come chi volete… non escludiamo gli uomini, è un errore che è già stato fatto e che non porta da nessuna parte.
Partiamo da uno studio serio sugli stereotipi linguistici presenti nei media, nella comunicazione istituzionale (che di questi luoghi comuni sappiamo essere fortemente intrisa), nella prassi quotidiana. Ci sono già docenti universitarie, giuriste, esperte di formazione, linguiste che hanno lavorato su questo tema, chiediamo un aiuto, sfruttiamo il materiale già esistente, rielaboriamolo, diffondiamolo. Diamo vita a un nuovo tipo di comunicazione che contribuisca non solo a veicolare immagini differenti, ma a sedimentare una nuova identità di genere, che illumini soggetti politici partecipanti e reali, come noi tutte siamo nella vita quotidiana.
Lo dobbiamo innanzitutto a noi stesse, ai nostri compagni, ma soprattutto alle nuove generazioni, quelle nate e cresciute con la televisione commerciale, con la mercificazione del corpo della donna, con il linguaggio del Grande Fratello e del berlusconismo. Ci troviamo davanti non a una battaglia femminile, ma a un’esigenza culturale, che richiama principalmente noi che lavoriamo nei media, che entriamo nelle case attraverso i giornali, le televisioni, internet. Dobbiamo recuperare il valore della comunicazione, smetterla di seguire dettami e dettati. Dobbiamo restituire valore alle parole e, attraverso un loro corretto utilizzo, valore alle donne e alle persone in generale.
*intervento di Jessica Cugini della redazione di Combonifem in seno all'assemblea nazionale di Articolo21