di Renato Bettinzioli*
Sessantaquattro anni sono passati da quella terribile primavera che vide la disfatta dell’esercito hitleriano e la liberazione dei campi di sterminio voluti dal nazismo per annientare i propri avversari. Sessantaquattro anni e il pensiero corre subito alle centinaia di migliaia di donne uomini che da quei lager non tornarono, che furono umiliati, percossi, affamati, sterminati e infine cremati nei campi, cenere dispersa al vento sulle campagne di mezza Europa.
Nel nostro Paese, in Europa e in altre parti del mondo vivono ancora milioni di persone che hanno vissuto quell’epoca e possono ancora narrarne. Molteplici sono i ricordi che si risvegliano e in qualcuno, nelle vecchie generazioni, antiche ferite che sembravano risanate da tempo ricominciano a dolere.
Per tutti questi ricordi e sentimenti non c’è un denominatore comune. Dobbiamo rispettarli come esperienze esistenziali degli altri e non diffamarli.
Dobbiamo cercare di ascoltare il prossimo aprendo le orecchie e il cuore.
Occorre un’atmosfera di riflessione: sono proprio l’attenzione e il rispetto per ogni singolo destino a sprigionare l’adesione ai valori comuni al genere umano. Chi non subì l’inferno dei lager non sarà mai in grado di condividere i sentimenti che ancora scuotono nell’intimo i sopravvissuti a quell’orrore. Chi non subì e neppure vide la sofferenza e la morte sui campi di battaglia della guerra può farsi solo una vaga idea degli incubi che ancora oggi perseguitano i reduci di allora. Chi ebbe la fortuna di non perdere la Patria non è in grado di capire lutti e dolori patiti, dagli espulsi e dei profughi, per la perdita della terra della loro infanzia e dei loro antenati.
Dopo quella guerra sono nati due terzi degli europei di oggi.
E’ l’imperativo che immagini, film, racconti di testimoni dell’epoca, diari e prima di tutto i ricordi personali delle vecchie generazioni in ogni famiglia insegnino e rammentino loro le terribili e devastanti conseguenze della guerra che Hitler e Mussolini scatenarono nella tirannide nazifascista.
Dell’Europa non restava che macerie e cenere; milioni di soldati di molte nazioni avevano perso la vita sui campi di battaglia, milioni erano caduti prigionieri e molti erano tornati a casa invalidi.
Per molti, prima di tutto per i prigionieri nei campi di concentramento, nelle celle della morte e nelle carceri, la fine della guerra e della tirannide significò la bramata Liberazione.
Commemoriamo e ricordiamo i milioni di ebrei, di gitani, omosessuali, testimoni di Geova, di persone originarie di altri paesi che furono torturati e assassinati.
Ricordiamoci del dolore e della morte di donne, uomini e bimbi innocenti. Ricordiamoci quanto patirono coloro i quali dovettero fuggire dalle loro terre o ne furono cacciati. Milioni di persone dovettero abbandonare la loro Patria e molti di loro morirono nell’esodo.
Tra di loro vivono ancora donne tormentate da terribili ricordi di quei giorni. Madri attesero invano i loro figli, mogli e fidanzate i loro mariti o i loro compagni. Molti bimbi persero in quella guerra il padre, la madre o entrambi i genitori.
Su un punto non può esserci alcun dubbio: la Liberazione dalla barbarie hitleriana fu necessaria per instaurare in Germania uno stato di diritto democratico e in Europa pace e riconciliazione tra i popoli.
Per i più la fine della guerra volle dire poi la fine della paura di perdere l’incolumità fisica o la vita. Quel giorno portò nuove speranze e da quelle speranze uomini, nell’abisso più profondo della nostra storia, ricavarono la forza di un nuovo inizio.
Poterono trovare un riferimento morale in quegli europei che avevano osato promuovere e guidare la Resistenza contro Hitler e Mussolini.
E nelle tre zone d’occupazione occidentali, non ultimo grazie al lungimirante aiuto americano specie al piano Marshall, potè presto prendere forma un nuovo ordine fondato sul diritto e sulla libertà.
In quell’ 8 maggio 1945 nessuno in Italia avrebbe comunque osato sperare che ci trovavamo all’alba del più lungo periodo di pace nella storia dell’Italia repubblicana. A fronte di ciò proprio tornando a ricordare le esperienze del passato, abbiamo ogni ragione di provare gratitudine. Molti hanno contribuito a creare la fiducia di cui oggi l’Italia gode. Prima fra tutte quelle generazioni che hanno fatto risorgere il nostro Paese dalle macerie materiali e dalle rovine dello spirito.
Ma l’8 maggio ci ricorda anche come una vita in pace e nella libertà non è certezza acquisita. Ci ammonisce a cercare per l’Europa un ordine di pace che sia basato sul rispetto illimitato dei diritti umani e del diritto internazionale.
Ecco la lezione decisiva che dobbiamo trarre dalle esperienze del Novecento che tanti dolori e sofferenze ha visto e vede ancora in molte parti del mondo.
Noi italiani vogliamo fare tesoro di questa lezione guardando avanti guardando al futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Allora e solo allora avremo il diritto di essere fiduciosi che gli orrori del passato non abbiamo mai a ripetersi.
* Anpi di Brescia