di Fabio Morabito*
Cent’anni dopo è tutto un altro mondo. Ma la passione del giornalista, quello che “deve consumare le suole” e ancora quelle, come cent’anni fa, è rimasta la stessa, ed è sempre questo che fa la differenza fra il cronista per davvero e l’impiegato dell’informazione.
Eppure tutto oggi invita alla pigrizia. E potrebbe sorprendere come si sia dilatato il numero dei giornalisti che nelle redazioni fanno il desk, rispetto ai tempi in cui era un compito veramente difficile, bisognava combattere con il piombo, senza un computer che, servizievole, dichiara gli spazi, restringe i caratteri, risolve i problemi. C’è stato lo sviluppo delle agenzie a fare concorrenza ai cronisti sul campo (concorrenza di principio sana, perché più antenne ci sono a raccogliere i fatti meglio è). Ma non solo. In nome della riduzione dei costi, pretesa da padroni convinti di fare con i giornali gli stessi profitti che si possono fare con la finanza, il ruolo di “giornalista di scrittura”, soprattutto in cronaca, è affidato a una rete di collaboratori esterni, con paghe povere e quasi sempre senza lo spiraglio di un’assunzione. Un invito esplicito, per i talenti migliori, a lasciar perdere, a fare altro. E un delegare le risorse di crescita fuori dal giornale invece di valorizzare le competenze importanti all’interno.
Si parla tanto di articolo 21 della Costituzione sulla libertà di informare, si parla un po’ meno dell’articolo 41 sull’“utilità sociale” dell’impresa, che per un giornale significa che non si può (non si dovrebbe) farlo con le logiche della catena di montaggio dell’informazione.
Del resto, pensano loro maestà gli editori, perché stipendiare tanti giornalisti? Ora gli enti locali hanno uffici stampa che, a Roma, sono come grandi redazioni. Giganti nella pancia delle istituzioni. E questa, che dovrebbe essere un’opportunità per tutti, è un’altra tentazione pericolosa. Perché il lavoro all’interno delle redazioni si chiama con efficacia, e quanta efficacia, “cucina”. E come nella cucina moderna si fa presto a scegliere scorciatoie. Si prende la notizia precotta, la si passa un paio di minuti nel microonde-computer, ci si mette giusto un tocco in più (magari solo per fare calzare l’articolo alla misure prestabilite in pagina) e il piatto è servito. All’apparenza la pietanza sembra buona: aiuta la grafica di oggi, coloratissima, la confezione a soddisfare l’occhio. Altro che le gazzette di solo piombo di cent’anni fa. Ma poi invece al piatto moderno manca la genuinità.
Se tutti fanno comunicazione (che è cosa diversa che fare informazione), la sfida del cronista al servizio del lettore è solo più bella. Ora, più di prima, la differenza la fa il cuoco. Ora, più di prima, non si riempie, ma si sceglie. E la fine della carta stampata, soprattutto nella cronaca della città, e soprattutto in una città infinita come Roma, è ancora lontana. Se si sa raccontare. Il cronista come lo vuole il lettore è il Virgilio che ci accompagna nei gironi di Roma. Che poi sono i quartieri, i rioni e le borgate, ma anche tutte le frazioni di realtà, dalle istituzioni alle parrocchie, dai ritrovi alle piazze. Qui, nel racconto della nostra città, nelle seduzioni e nella storia di Roma, il multimediale è un trionfo. Quante opportunità. Ma non ce n’è una che sostituisce l’altra, come qualcuno teme, come qualcuno crede. Ognuna ha il suo ruolo. ”Approfondimento”, è la parola magica con la quale molti indicano la strada della sopravvivenza del giornale “vecchia maniera”, di carta o virtuale, ma sempre letto foglio dopo foglio.
Niente paura, il giornalismo dalla scarpe bucate potrebbe non morire mai. Forse che il web, e le sue notizie a rullo continuo, può sostituire l’atmosfera di una cronaca raccontata? E in fondo il cronista di Roma, nella storia ora centenaria del Sindacato, può vantarsi di essere un’avanguardia del multimediale. Che cos’è, se non un ”supporto” diverso, il rullino preteso nelle redazioni, così come si raccontano gli ”eroici” anni ’60, per un fatto di cronaca dove «la foto, mi raccomando la foto», era un pezzo del servizio?
Si consumano le scarpe. Senza disprezzare il lavoro di scrivania e telefono, il “lavoro di complemento”. La descrizione di una delibera fatta da un portavoce, ora basta un ”click” per confrontarla con il testo originale. Con il minimo sforzo, quante scoperte. Ma le fonti, le più preziose, le incontri andandoci incontro. Ogni manuale del giornalista enumera puntiglioso le fonti. Ne aggiungo una: il caso. Per caso s’incrocia una chiacchiera in ascensore, si sbircia una stretta di mano in un bar tra personaggi della politica che si sapeva nemici, si legge in uno sguardo un’intesa, un’angoscia, una verità. Perché non c’è solo la cronaca nera, ma anche la cronaca bianca, le istituzioni spiegate al cittadino, e non filtrate, mascherate, omesse, sono altrettanto il sangue del nostro mestiere. Quante volte ci siamo sentiti dire, apprendisti in redazione, che il mestiere del giornalista s’impara facendo la cronaca. E’ una verità, ma che non dice tutto. Perché sembrerebbe suggerire che fare cronaca (e cioè: raccontare i fatti) rappresenti solo una partenza. E invece è anche un bel percorso, traguardo compreso, della professione.
Tutto è cambiato, ma la sostanza resta. Dal dagherrotipo al digitale, dall’effetto forte del bianco e nero all’opportunità del full color. Con le istituzioni, a Roma, centrosinistra o centrodestra non cambia, che preferiscono sempre i colori pastello. Dai tanti giornali di Roma che raccontano Roma ne sono rimasti solo due, di testate ”storiche”, il Messaggero e Il Tempo. I quotidiani della sera sono stati spazzati via, quelli sì, dalla televisione. E alla cronaca di Roma si sono dedicati, con redazioni attrezzate e competitive, anche le grandi testate nazionali. Come il Corriere della Sera e il Giornale. Caso diverso è la storia di Repubblica che è di Roma ma, quando è nata, alla Capitale e a Milano dedicava solo una pagina, divisa salomonicamente a metà.
E’ cambiato il linguaggio, che non risente solo dell’evoluzione dei tempi, ma anche di come si scrive (dalla penna, alla morbida tastiera del computer) e del “supporto” per il quale si scrive (un testo per la tv, o una frase che viaggia in sms). Anche la bussola della deontologia si è fatta più precisa. Ed è relativamente recente la consapevolezza che la priorità non è il diritto del giornalista di informare, ma quella del cittadino di essere informato.
Cento anni, quanto lungo è stato il cammino, quanto appassionante e battagliero deve essere ancora. Il Sindacato cronisti, quattrocento colleghi con la cronaca nel Dna, è la costola verace dell’Associazione stampa romana. Molti di questi quattrocento sono ancora ”giornalisti di carta”, ma Roma la raccontano la radio, le televisioni, i nuovi media. Paese Sera è rinato in questi mesi, per ora come testata online. E’ stata una piccola romanissima tv locale, Gbr, la prima a fare il servizio sul ritrovamento del corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Roma la raccontano le agenzie, e quanto il lavoro più oscuro, tradotto in carta, ha fatto brillare pagine in crisi. Quante fotografie raccontano meglio di cento righe.
E’ il lavoro di tutti che può garantire il diritto dei cittadini ad essere informati. Qui, soprattutto qui, gioca la sua partita il sindacato. Gioco di squadra, sempre. Nelle redazioni, fuori dalle redazioni. Perché, com'è avvenuto cent’anni fa con il Sindacato cronisti, non si tratta per i giornalisti di farsi casta. Ma di fare squadra.
E forse è ora che siamo noi giornalisti a imparare dai bambini. Quando, come Associazione stampa romana, ogni anno consegniamo al Campidoglio il premio Ilaria Alpi per i bambini ”piccoli giornalisti”, ci vediamo sommersi da piccole storie di una città, nei casi più autentici vista con stupore. Stupore: parola magica, risorsa segreta. E non mancano, in questi ”primi articoli” spaccati di Roma che non c’è più, rubati al ricordo del papà, o addirittura del nonno: prati che inseguono l’orizzonte, la campagna romana che respira accanto alle case e abbraccia la città.
Una passione per Roma, ed è anche questo il senso del lavoro del cronista che racconta questa città unica. Un lavoro che potrebbe non morire mai, ma che rischia di morire se l’amore per la città a misura di uomo (e di umanità) lo lasciamo “in esclusiva” ai bambini che, come nel concorso Ilaria Alpi, fanno i cronisti per un giorno. E questa crisi della professione non è nata dalla concorrenza di internet, dalle nuove tecnologie, dall’informazione che cambia. E’ una crisi che nasce dalle scelte degli editori, che qui a Roma non sono filantropi o botanici. Non ci rimane che convincere anche loro: nell’era della comunicazione noi giornalisti facciamo informazione. Nient’altro. Spesso con fatica. Ma anche con emozione. E’ sempre stato questo il nostro compito in questi cent’anni. E vogliamo che lo sia per cent’anni e cent’anni ancora.
Presidente dell'Associazione Stampa Romana