di Enzo Costa*
Per me, di base, Berlinguer era un politico timido. Certo, a quei tempi, che non erano questi, poteva permetterselo: “un politico timido” non era un ossimoro innaturale, assurdo ed inconcepibile. Ma un’eccentricità, in qualche modo, lo era. Però dire che fosse timido non è esatto, o meglio non è sufficiente: Berlinguer era timido anche nella sua timidezza. La timidezza lui la portava con pudore, spesso si vedeva che lo imbarazzava politicamente, si intuiva che stesse pensando “Il segretario del Pci non deve esibire le proprie introversioni”, e allora provava a darsi un contegno istituzionale, a volte scandendo meglio le parole, scolpendole con una sorta di solennità sarda, a volte (nelle tribune politiche) guardando al suo fianco Tatò. Che con lo sguardo lo rassicurava timidamente. A quei tempi, che non erano questi, i più stretti collaboratori dei segretari politici potevano permetterselo: sostenere il segretario con pudiche espressioni facciali e lessicali. E non guardandolo come fosse il Signore, l’Unto del Signore o, male minore, il Santo Patrono. E non parlandone come fosse lo Statista (con la esse maiuscola), LO STATISTA (tutto maiuscolo) o, meno peggio?, il fondatore dell’azienda. In particolare fra loro, dico fra Berlinguer e Tatò, c’era una complicità unidirezionale di sguardi sommessi: quelli che partivano flebilmente dal primo producevano quelli che sgorgavano impercettibilmente dal secondo, e mai il contrario. Perché timido sì, ma un leader Berlinguer lo era eccome. E poi, era tante altre cose: Berlinguer era una persona seria. Berlinguer era una persona troppo seria. Berlinguer non era una persona seriosa. Berlinguer era una persona e non un personaggio, una personalità e non un personalismo. Berlinguer era la politica della mia infanzia. Berlinguer era la politica in bianco e nero. Berlinguer era Jader Iacobelli che lo introduceva senza quasi mai ammiccare, tanto poi arrivava lui che non ammiccava per nulla. Berlinguer era l’austerità nello spirito e nel fisico, nella pettinatura e nelle giacche, e poi nel pensiero politico. Berlinguer era la sinistra italiana quando sembrava che la definizione avesse un senso. Berlinguer era lo strappo da Mosca, coraggioso ma lento, cauto ma ostinato, indefinito ma definitivo, che dentro lo lacerava. Berlinguer era un’incompiuta in pieno corso, una scommessa che si poteva benissimo perdere, una speranza che non si voleva spegnere. Berlinguer era l’eurocomunismo, il compromesso storico, la solidarietà nazionale. Berlinguer erano i progetti ambiziosi e affannosi, le visioni lucidamente opache, il pessimismo della volontà, l’ottimismo della ragione. Berlinguer era l’inizio del titolo di un film di Benigni, quando Benigni diceva molte parolacce, però era poetico proprio come oggi. Berlinguer era Benigni che lo prendeva in braccio con la stessa amorevolezza infinita con cui oggi prende in braccio Dante o Mameli. Berlinguer era un politico in ritardo con la Storia con tutte le qualità per passare alla Storia. Berlinguer era una sinistra poco moderna per gli stessi che ora, rievocandolo con rimpianto, dicono che la sinistra è troppo moderna. Berlinguer era l’opposto di Craxi, l’interfaccia di Moro, il figlio di Pertini, un non consanguineo di Andreotti, un non connazionale di Berlusconi. Berlinguer erano le classi deboli che andavano tutelate e non manipolate, fatte crescere e non rimbambire, educate nelle sezioni e non narcotizzate con le televisioni. Berlinguer era un’idea di società, forse utopistica, forse confusa, ma era un’idea ed era una società. Berlinguer erano gli operai che c’erano e non dovevano sparire, era la marcia dei 40.000 e la sconfitta di Mirafiori, così terribilmente vincente, rispetto alla disfatta di trentuno anni dopo. Berlinguer era la sua vita sussurrata, la sua morte gridata, il suo funerale intimo e trionfale. Un dolore potente, dirompente e imponente. E timido.
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*tratto dal'Unità 26 giugno