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Siete sicuri di vivere nel nostro stesso Paese?
Siete sicuri di vivere nel nostro stesso Paese?

Caro presidente del Consiglio, Caro Ministro del lavoro, cari 19 giovani che con una lettera al Corriera della Sera avete detto “la vostra” sulla riforma del mercato del lavoro, vi scriviamo questa lettera priva di ideologia, priva di una qualsiasi forma di rancore o “etichetta ottocentesca” come contributo e confronto rispetto a quello che avete scritto sul quotidiano.

Queste poche parole che vi consegnamo, sono solo figlie della nostra esperienza quotidiana che viviamo sulla nostra pelle come studenti medi, studenti universitari e giovanissimi lavoratori. E’ anche una lettera figlia delle espressioni dei nostri genitori, del loro vivere giornaliero: è una lettera che raccoglie la realtà che si respira in tutto in nostro Paese, a qualsiasi latitudine, ma che troppo spesso chi ha incarichi importanti o viene da scuole e università private tende a dimenticarsi.

Siamo rimasti di stucco quando abbiamo letto determinate espressioni-etichetta nel vostro articolo, che a dir la verità ci sanno un po’ troppo di slogan di cui la nostra generazione è stufa.

Da studenti che si mantengono gli studi con lavori (indovinate?) precari e sottopagati, dalle pagine del Corriere abbiamo appreso la vostra ricetta: la soluzione ai nostri problemi è una maggiore flessibilità del lavoro e rubare i diritti ai nostri genitori e ai nostri nonni.

Ci chiediamo, cari 19 giovani in soccorso al Governo, ma viviamo nello stesso Paese? Non sappiamo che lavoro facciano i vostri genitori, che pensione prendano i vostri nonni, ma se volete vi raccontiamo, per esempio, cosa vuol dire vedere il proprio padre o la propria madre con il magone dirti che non può permettersi di pagarti gli studi. Pagare un percorso formativo che nel nostro Paese è diventato un percorso ad ostacoli. In partenza l’assenza totale di diritto allo studio, a partire dalle scuole superiori, sempre più costose, da cui 100.000 studenti rimangono fuori, perchè non possono permettersele o perchè devono andar a lavorare per aiutare la famiglia, proseguendo sulla strada dell’università in cui si trovano ostacoli sociali di ogni sorta: le terze tasse universitarie più alte d’europa anche più alte dei limiti previsti dalla legge, numeri chiusi che stanno facendo calare le immatricolazioni nello stato con meno laureati d’Europa; uno stato che si sta gradualmente disinteressando della propria istruzione pubblica, tagliando i fondi e diventando fanalino di coda Europea per investimenti nell’istruzione e ultimissimi per investimenti per il diritto allo studio. Tutto questo nel Paese con 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, con la dispersione scolastica fra le più alte d’Europa e che confeziona il tutto in una grande pacco chiamato “mobilità sociale immobile”.

Precari nella vita, prima ancora che come lavoratori: senza diritti sul posto di lavoro, senza sicurezze nella quotidianità senza avere la possibilità di fare anche solo un progetto a medio-lungo termine. E la soluzione a tutto questo sarebbe ulteriore flessibilità? In Italia ci sono 46 -quarantasei- forme di contratto diverse: più flessibili di così ci si rompe. Ci dite che la soluzione è “rubare diritti e togliere la bambagia ai nostri genitori”: scusate, ma quale bambagia? Noi vediamo i nostri genitori sentirsi fortunati per avere ancora un lavoro, e per non essere intrappolati nella disoccupazione o per non essere in cassa integrazione, cresciuta esponenzialmente da due anni a questa parte. Non hanno bambagia, ma solo dignità.

C’è la possibilità, una volta per tutte, che questo Paese la smetta di cercare divisioni invece di soluzioni? Che non cerchi di mettere contro genitori e figli? Nonni e nipoti? Che senso ha, quando si parla di cura per il Paese, dire che la soluzione è l’estendersi della malattia e che tutti ne siano contagiati? Non vediamo privilegi, nei nostri genitori: vediamo invece privilegi nella nostra società. E se partissimo da smontare quelli? Da ridurre gli sprechi, per estendere i diritti e provare a fermare l’epidemia?

Se provassimo a far pagare la crisi a chi l’ha provocata, a chi ha davvero la fortuna e “la bambagia”? Se provassimo a dire che non basta tagliere 40 F35 ma bisogna azzerare anche i restanti 91 ordinati, e reinvestire i 10 miliardi “risparmiati” in ammortizzatori sociali per combattere la precarietà e garantire una continuità di reddito?

Se i politici, invece di mettersi tutti in bocca parole demagogiche “sull’importanza della famiglia”, provassero a fare qualcosa per fare in modo che anche noi giovani possiamo costruircela da soli? Possibilmente, ci terremmo, senza smontare quelle già esistenti, andando a colpire i nostri padri e i nostri nonni che, nelle famiglie che se lo possono permettere, sono l’unico welfare che fa arrivare alla fine del mese noi giovani.

Non concordiamo circa le comprovate responsabilità della nostra generazione. Per quello che ci riguarda noi siamo la generazione che da anni, partendo dalla difesa dell’istruzione pubblica, ha urlato da ogni piazza la propria condizione di precarietà, fatta di un presente immobilizzato e senza diritti e di un futuro incerto. Abbiamo urlato anche i problemi del lavoro, della disoccupazione dilagante, di una mobilità sociale al palo, dell’abbassamento dei diritti generalizzato: di una precarietà a tempo indeterminato a cui sembriamo condannati nella migliore della ipotesi, con un futuro in ostaggio.

Siamo un po’ stufi della demagogia, e di ragionamenti fatti da comodi salotti o dall’ufficio di un’università privata: venite a vedere la realtà, parlate con le famiglie vere, con gli studenti che abbandonano la scuola, con gli studenti lavoratori che sono quasi il 50% del totale, con gli universitari idonei per merito e reddito alla borsa di studio che non possono percepirla per mancanza di fondi, al nonno che fa fatica ad arrivare a fine mese con solo la propria pensione, fate un giro nella normalità di chi non è “figlio di”, e vediamo se troverete “bambagia da togliere” o solo dignità da rispettare e malattie di precarietà di lavoro e di vita da curare.

Il “dispetto generazionale” è una favola, la nostra una dura realtà. Il nostro tempo è adesso, e anche se il presente è tutt’altro che una favola, vorremmo un futuro con un lieto fine.

Rete degli Studenti Medi

Unione degli Universitari 

 

 

 

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