di Stefano Parise*
In alcuni comuni del nord-est e autorità locali hanno disposto che determinate testate periodiche, ritenute “politicizzate”, non dovessero più essere acquistate dalla biblioteca. Un fatto tecnico – la selezione di alcune risorse informative – diventa il pretesto per la messa in mora del pluralismo in uno dei luoghi deputati alla libera circolazione delle idee. Questi i fatti. Il 10 ottobre 2009 il Gazzettino, quotidiano del nord-est, riporta notizia delle disposizioni impartite alla biblioteca di Musile di Piave (VE) dalla giunta comunale, tendenti a eliminare dalle raccolte alcune pubblicazioni ritenute di parte, benché non direttamente ed esplicitamente riconducibili a partiti politici. Il presidente dell’Associazione Italiana Biblioteche invia una lettera di protesta al sindaco (disponibile a http://www.aib.it/aib/cen/stampa/c0910a.htm), che viene ripresa da Repubblica.it e da un’emittente radiofonica; il sindaco risponde a stretto giro di posta, precisando che il provvedimento si è reso necessario per contenere le spese di gestione e che il criterio individuato risponde a criteri di imparzialità (nella tagliola sono infatti finiti Repubblica, Il Manifesto e Il Giornale) e di salvaguardia, poiché la presenza in biblioteca di postazioni per la navigazione Internet appare sufficiente a garantire un accesso adeguato all’informazione.
Un provvedimento di natura gestionale, rientrante nei compiti del personale preposto al servizio,
viene realizzato sulla base di una direttiva dell’organo politico e ottiene l’effetto di eliminare dagli scaffali della biblioteca il quotidiano più letto d’Italia, notoriamente critico nei confronti dello schieramento politico al quale la giunta di Musile appartiene.
Il problema è di natura culturale, prescinde dagli schieramenti e non risulta una novità in assoluto, visto che in molte amministrazioni locali - specialmente nelle piccole realtà - è diffuso il malcostume di sottoporre le liste d’acquisto librario al vaglio preventivo dell’assessore o del funzionario di turno. La biblioteca cessa di essere strumento della democrazia per diventare speculum del pensiero dominante, o meglio governante. Il diritto di cittadinanza per tutte le opinioni viene d’ufficio trasformato in diritto di soggiorno, la cui durata è proporzionale alla permanenza in carica di questa o quella parte politica: una forma malintesa di spoil system, in base al quale chi prevale alle urne si sente in diritto di imporre la propria visione del mondo, cancellando le opinioni della parte avversa.
Che esista uno scarto fra l’ambizione universale del Manifesto Unesco per la biblioteca pubblica
(1995) e le sue concrete applicazioni è cosa facile da comprendere anche per i non addetti ai lavori:
un conto è proclamare che «la biblioteca pubblica […] rende prontamente disponibile per i suoi
utenti ogni genere di conoscenza e informazione», altra faccenda è fare i conti con la carenza di
risorse, competenze, spazi, che rappresenta il limite fisiologico di qualsiasi istituzione e fissa il
punto di equilibrio fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.
Se però le contingenze diventano un alibi per limitare il ruolo di centro informativo locale della
biblioteca nei confronti dei cittadini, il peccato cessa di essere veniale per assumere i connotati di
una vera e propria censura e lo spirito del Manifesto Unesco (la magna charta dei bibliotecari di
tutto il mondo) viene tradito nei suoi valori fondanti: gli ideali di accesso universale alla conoscenza
e di non discriminazione, che sono direttamente connessi al diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero - come recita l’art. 21 della Costituzione – e implicano la libertà d’informazione di
cui all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (diritto di «cercare, ricevere e
diffondere informazioni»).
*Comitato esecutivo nazionale
Associazione Italiana Biblioteche